Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

Immaginari migratori. La parola degli esperti

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Immaginari migratori è un libro uscito nel 2018 e scritto dai geografi Angelo Turco e Laye Camara con il contributo di un gruppo di ricercatori europei e africani, geografi, sociologi, un’antropologa e degli esperti di comunicazione. Angelo Turco parla del libro in una lezione intitolata Immaginari migratori, territori, intercultura. Una diversa narrazione dell’Africa e delle culture africane che ha tenuto il 28 novembre presso l’istituto Avogadro di Torino: Nel libro abbiamo spostato doppiamente il focus per quanto riguarda il concetto di migrazione, dice Turco, prima dalla dimensione economica alla dimensione culturale della migrazione, poi nei confronti delle politiche migratorie. Non stiamo parlando di migrazione forzata ma di migrazione come evento. Il bisogno non basta a produrre migrazione: si emigra se esiste una cultura della migrazione capace di trasformare un bisogno, come può essere la fame, in un movente sufficiente a prendere la decisione migratoria e ad eseguirla.Il professor Turco suggerisce quindi di compiere un passo indietro e veder cosa c’è alla base della cultura migratoria africana e in particolar modo subsahariana; per fare ciò bisogna prendere in esame il concetto di immaginario migratorio: L’immaginario migratorio, continua Turco, è qualcosa che non ha a che fare con la conoscenza e la verità ma con la modalità attraverso la quale uno se la racconta. La dimensione comunicativa è stata fondamentale in questo libro, abbiamo messo l’accento su alcuni aspetti di grande interesse: il doppio circuito della comunicazione ad esempio. All’incirca possiamo riconoscere un circuito della comunicazione basato sui vecchi media e uno digitale, basato sui social e i nuovi media. Abbiamo visto che il primo (Tv, radio, carta stampata ecc..) interessa noi abitanti del così detto nord del mondo ma non interessa per nulla gli africani che oltre a non avere molti mezzi necessari, se vi vengono a contatto, capiscono subito che quella è una forma di comunicazione autoreferenziale, fatta cioè da noi e indirizzata a noi e che veicolando certe immagini, ci fa maturare opinioni sulla migrazione. Questo è il primo tipo di comunicazione che abbiamo chiamato dissuasiva e che va distinta dal secondo tipo che è la comunicazione persuasiva e si basa sui nuovi media che sono quelli più usati dai migranti e largamente diffusi ovunque anche in Africa e America Latina. Molti infatti possiedono uno smartphone ed è quello che basta per ricevere l’informazione che conta: la persona che conosco è arrivata. Questo porta ad incamerare l’informazione che ce la si può fare; l’informazione che non conta è il numero di morti, le sofferenze, il fatto che si rischia la vita almeno due volte in modo consistente: nel Sahara e nel Mediterraneo.

Ma questo “ce la si può fare” è sufficiente per imbarcarsi in un viaggio che mette in serio pericolo la propria vita?
La nostra idea della morte è diversa da quella di un migrante subsahariano, spiega Turco, noi abbiamo un’idea repulsiva della morte, nulla vale il rischio di morire. Per il migrante invece la possibilità di morte rientra tra gli elementi che devono essere presi in considerazione per la ricerca di una vita migliore. Per questo si premuniscono: l’islam subsahariano ad esempio, che ha molti elementi differenti da quello nordsahariano, si è attrezzato per fornire protezione necessaria al migrante attraverso i Marabout. Queste figure danno la benedizione al migrante e pregano per lui costituendo il suo salvacondotto prima di tutto per arrivare vivo, poi perché in caso di morte, il migrante sarà morto compiendo un’azione degna del Paradiso che lo aspetta. Il migrante che arriva qui è dunque una persona che sta facendo un’azione buona per la sua famiglia, per il paese ma anche per se stesso perché sta seguendo la via che lo porterà in Paradiso.

L’argomento del secondo spostamento di focus, come già accennato, sono le politiche migratorie di cui Turco dice:
Ogni volta che si parla di politiche migratorie, le si presenta come se fossero qualcosa che riguarda solo noi. Posso fare tutto quello che voglio ma se non ho un minimo di dialogo e collaborazione con i paesi da cui provengono i migranti, non vado da nessuna parte. Ecco perché nel libro abbiamo proposto di non chiamarle nemmeno più politiche migratorie ma di trasformare quella che si chiama cooperazione allo sviluppo in cooperazione migratoria.

Ma che politiche si potrebbero attuare?
L’ultimo capitolo del libro, dice Turco, si intitola “Politiche migratorie: tra Italia ed Europa, tra Africa e Mediterraneo. Appunti per il primo governo utile”. E’stato scritto nell’autunno dello scorso anno e per quanto abbia un pregiudizio molto favorevole nei confronti degli africani, volevo segnalare ai nostri responsabili politici l’idea che questo non fosse un libro ideologico. Chiunque fosse il responsabile politico avrebbe potuto trarne spunto. Alla vigilia della pubblicazione del libro ho avuto a che fare con il senatore leghista Iwobi che è un immigrato nigeriano ed è stato il responsabile della Lega dell’Ufficio Migrazioni. E’ quello che si è inventato lo slogan grazie al quale già allora Salvini ha vinto le elezioni: aiutiamoli a casa loro. La mia idea era quella di far capire che anche nel caso di una politica come “Aiutiamoli a casa loro” bisognasse agire, cooperare, ma si è continuato a parlare solo, finché il senatore Iwobi è sparito. D’altra parte interlocutori di sinistra, per quanto ne abbia cercati, non sono riuscito ad averne.
L’idea è che dobbiamo uscire dal loop dell’accoglienza, dobbiamo andare oltre. L’accesso al nostro welfare è il primo passo per i migranti per passare da una speranza di vita di 40 anni alla speranza di vita di 80 perché noi, in fondo, non abbiamo nessun merito per questo grande dono che abbiamo ricevuto.
Per fare questo il primo passo da fare è cooperare. Per prima cosa bisogna formare il personale tecnico-amministrativo che ne assicuri l’esecuzione cooperativa: io posso fare un accordo con il Niger ad esempio ma dopo lì chi lo gestisce? Poi si deve puntare, per quanto riguarda il lavoro e la formazione, su forme di competenza digitale che non ha bisogno di spostarsi e promuovere partnership in ambito pubblico e privato. Infine, ma non di importanza minore, costruire una nuova immagine per l’Africa perché quella che possiede ora in tutto il mondo è distorta.

Queste sono le riflessioni e le proposte del geografo Angelo Turco, chissà che qualcuno voglia finalmente affidarsi agli esperti e diventare “Il primo governo utile”.

Chiara

chiaral@vicini.to.it

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