E’ una storia di innocenza, sfida e amore sullo sfondo della guerra.
Due adolescenti, Julia e Roman (interpretati dagli attori ucraini Veronika Lukyanenko e Danyil Kamensky ) arrivano su una spiaggia deserta per vivere un momento di spensieratezza. Ma il loro tuffo in mare diventa il simbolo della scelta tra la vita e la morte. Il cortometraggio Dive (Tuffarsi) presentato all’80^ Mostra del Cinema di Venezia, riflessione profonda e poetica sulla barbarie bellica, è in corsa per l’Oscar 2025.
Ne abbiamo parlato con l’autore, il regista crotonese Aldo Iuliano, impegnato nella campagna di promozione del film: il 17 dicembre si saprà se Dive è nella short list dei finalisti in gara per la premiazione a Los Angeles.
Qual è stata la genesi di Dive?
Quando nacque l’idea era appena scoppiato il conflitto russo-ucraino: il mio sentimento di paura che la guerra arrivasse anche da noi si confrontò con i concept che mio fratello (Severino, sceneggiatore) stava scrivendo su chi viveva lì e tentava di condurre una vita normale nonostante tutto. Abbiamo trovato di comune accordo la chiave narrativa di Dive: raccontare una piccola storia d’amore e bellezza che interrogasse lo spettatore sull’importanza di questi valori.
Come hai scelto i luoghi e i colori del film?
Volevo creare un “non luogo”, uno spazio non definito, ma che rimandasse al contesto della guerra. Quella spiaggia è un rifugio, ma l’atmosfera evoca un pericolo imminente. Il contrasto tra il cielo grigio e il mare agitato dà un senso di inquietudine. Per la sequenza nell’acqua, con il direttore della fotografia Daniele Ciprì ci siamo ispirati visivamente ai quadri di Karl Wilhelm Diefenbach, che avevo visto a Capri: i toni di blu e nero, connubio di vita e morte, collocano i protagonisti in una sorta di limbo, tra il reale e l’immaginario.
Hai seguito un criterio particolare per individuare i protagonisti?
La scelta di avere due attori ucraini è stata una coincidenza felice. Volevo che tra di loro ci fosse una connessione autentica. Sono amici da sette anni, studiano al Centro Sperimentale di Cinematografia e, quando li ho incontrati, ho capito che erano perfetti per il ruolo. La loro relazione, autentica e profonda, ha reso la storia ancora più potente.
Che legame c’è tra i brani della colonna sonora e la trama?
Le musiche del film sono le due facce della stessa medaglia. Il primo pezzo, allegro e spensierato, è “Mamma Maria,” dei Ricchi e Poveri che, come Toto Cotugno e Al Bano sono molto popolari all’Est e il suo ritmo mi dava il tipo di setting gioioso che desideravo. Il secondo brano, “Mallëngjimi”, eseguito dall’artista albanese Elsa Lila, è più introspettivo, inizia come canto romantico e poi diventa un grido, la voce di madre Natura che piange perché i suoi figli si uccidono gli uni con gli altri: il lamento nostalgico di chi è costretto a lasciare il proprio Paese per la guerra e aggiunge ulteriore tensione emotiva al film.
Le orme e il cane: cosa rappresentano?
Il cane è lo spirito guida, simbolo di libertà e fusione con la natura. Le orme sulla sabbia potrebbero alludere ai passi dell’umanità, compiuti fin qui, a ricordarci la parte migliore di noi, quella che dobbiamo preservare. I ragazzi sono l’incarnazione di questa bellezza e innocenza, in contrasto con la violenza della guerra.
Qual è il messaggio finale del film?
Non voglio fare film che lancino messaggi diretti. Dive fotografa una condizione umana che lo spettatore condivide insieme ai protagonisti. L’innocenza e l’amore sono spazzati via dalla violenza: il finale aperto invita a scegliere se salvaguardare la purezza e l’umanità o perdersi nella barbarie.
Come definiresti il tono della tua opera?
Il tono è di speranza, ma anche di consapevolezza. La parentesi romantica è minacciata dalla cruda realtà della guerra e – comunque si legga il finale – la sua devastazione lascerà cicatrici indelebili.
Perché hai scelto il formato del cortometraggio?
In un’epoca di fruizione rapida dei contenuti e di tempi di attenzione ridotti, il cortometraggio è il mezzo ideale per una comunicazione diretta ed efficace, cattura e mantiene l’attenzione senza perdere il ritmo. Oltre ad essere una grande palestra per il lungometraggio, dall’altra parte vive da sé: e se l’idea espressa è ben focalizzata ti arriva più forte, ti rimane dentro. Questo formato, che consente di esprimere significati anche in modo metaforico, oggi sta trovando sempre più spazio nel panorama cinematografico.
C’è qualcosa che non ti è stato chiesto ma che vorresti dire sull’esperienza di Dive?
Non mi è stato chiesto se mi sono divertito a realizzare il film. A dispetto delle difficoltà, è stato un progetto molto gratificante. Una curiosità: il cane del film, che è ammaestrato, ha avuto dei cuccioli. Alla fine della lavorazione, l’allenatore me ne ha donato uno, Jay, che ora vive con me. Tra le energie positive che questo lavoro mi ha trasmesso, conservo un ulteriore simbolo della vita che continua, un piccolo miracolo che mi ricorda l’importanza della speranza anche in tempi oscuri.
Anna SCOTTON
annas@vicini.to.it
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