“Sono nato qui Dove era pericoloso nascere Sono nato qui Dove tutti si abituano a tutto, ma non mi va bene”.
Il brano si intitola “Ja naradziŭsia tut” ed è un pezzo reggae del 2000 di Zmitser Vajtsiushkevich: famoso tra i giovani bielorussi di allora, è una canzone di lotta contro il governo oppressivo ( ancora attuale), e che fa da colonna sonora nel film Under the Grey Sky (CL) di Mara Tamkovich. Il lungometraggio d’esordio della regista racconta di una reporter televisiva che lavora per un media dell’opposizione e trasmette le manifestazioni popolari soffocate con la forza dalla polizia, fino a che anche lei e il suo operatore vengono rintracciati da un drone e arrestati. L’interrogativo che la cineasta, a lungo giornalista per una Tv e radio bielorussa indipendente per fornire informazioni non censurate ai connazionali, pone a se stessa e allo spettatore è se fuggire o restare in Bielorussia, oggi, per lottare. Dall’errore commesso nel 1994, quando a seguito dell’ultima libera elezione del Paese si è insediato il regime del presidente Aleksandr Lukašenko – ha dichiarato la Tamkovich – la libertà d’espressione in Bielorussia non esiste più, i registi devono trovare produzioni esterne per lavorare. Asciutto, essenziale, ma efficace, interamente realizzato in Polonia, Sotto un cielo grigio si avvale delle autentiche immagini di repertorio delle proteste di cittadini avvenute di fronte al Parlamento e represse nel sangue.
La musica nei film riveste un ruolo fondamentale, poiché ha la capacità di arricchire la narrazione, evocare atmosfere e contesti, oltre a identificare i personaggi e definirne il carattere: è quanto accade in The Black Sea (CL), di Crystal Moselle e Derrick B. Harden. Un afroamericano newyorchese arriva in Bulgaria con l’intenzione di far soldi facilmente e, per sbarcare il lunario, coinvolge i residenti offrendo cibo e hip hop. Film generato dalla visita reale dei registi alla produttrice Izabella Tzenkova in un paese sul Mar Nero e dall’incontro con il protagonista che aveva un forte seguito tra i locali innamorati della cultura urbana che lui incarnava: anche perché, sebbene in quel luogo non ci fossero altri afromericani, l’hip hop era presente nel modo in cui molti giovani si vestivano e nella musica che ascoltavano. Dialoghi creati senza copione, ma frutto di incontri e improvvisazioni, conferiscono ritmo al film e veicolano un bel messaggio sulle affinità tra la vita degli europei dell’Est e quella nordamericana e sulle possibilità di scambio e arricchimento reciproco.
Anna SCOTTON
annas@vicini.to.it
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