
Quando, da ragazza, fu colpita dall’eccezionalità della figura di questa icona del fotogiornalismo, Monica Poggi – curatrice e responsabile di tutte le mostre di Camera – non immaginava che qualche anno dopo avrebbe avuto il piacere di raccogliere 150 scatti realizzati da Margaret Bourke-White ( 1904 – 1971) per condividerli con i visitatori delle sale di Via delle Rosine 18. La mostra illustra la vita affascinante di un personaggio sfaccettato, ardimentoso e glamour, che poteva passare con disinvoltura dalle più eleganti feste hollywoodiane al seguito delle operazioni militari del generale Patton in Germania, riprendendo l’orrore del campo di concentramento di Buchenwald.
Che difficoltà ha incontrato negli anni ‘30 Bourke-White ad affermarsi come fotografa?
Ha avuto le porte chiuse in faccia come tutte le donne a quel tempo, ma lei riusciva ad aprirle. Era fondamentalmente ostinata: a vedere le sue foto sembra quasi che per la casualità del destino riuscisse ad avere ogni opportunità, invece sono frutto di insistenza martellante e infiniti tentativi. Anteponeva il lavoro anche alla sua storia privata perchè la fotografia è stata il suo grande amore. Nella vita non ha avuto figli, ci ha provato, ma in quegli anni era in missione con le forze dell’aviazione statunitense in Germania, stava seguendo l’avanzata degli alleati: così il marito (lo scrittore Erskine Caldwell) la lascia perché si sente messo da parte. Le persone che le stanno attorno non sono in grado di capire il suo bisogno di lavorare, di emanciparsi, quindi il fatto di essere stata così forte, così determinata, indipendente la porta poi, per contro, alla solitudine.Altre prove della sua caparbietà?
Ad esempio durante la malattia, che la porta a non riuscire a tenere in mano la macchina fotografica: a quel punto decide di farsi riprendere dall’amico collega Alfred Eisenstaedt mentre si sottopone a un intervento chirurgico sperimentale. E’ lei a diventare soggetto, a mostrarsi con la testa rasata, infragilita, mentre cerca di fare operazioni banali come allacciarsi le scarpe senza riuscirvi, davanti ai milioni di lettori di “Life”. Anche questo racconta il personaggio incredibile e coraggioso che è stata.
Come arriva ad essere la prima donna fotografa per “Life”?
Il periodico aveva un orientamento liberale, dato anche da molti intellettuali che erano fuggiti dai regimi nazifascisti europei. Avevano trovato la libertà negli Stati Uniti, erano diventati collaboratori, redattori del giornale, e in qualche modo portavoce dell’ idea di grandezza degli Stati Uniti. Infatti – soprattutto nei primi anni – “Life” era impostato su una visione nazionalistica di cui Margaret era l’interprete perfetta perché la sua esistenza è simbolo di audacia, affermazione di sé, sfida del pericolo: lei faceva le foto, ma poi scrivevano gli articoli sulla sua persona, passava da essere autrice a soggetto.
La sua opera è contraddistinta dall’ interesse per il sociale e le condizioni di lavoro.
Le sue prime importanti fotografie sono realizzate all’interno delle acciaierie, difficili da fare perché le pellicole dell’epoca subivano il calore dell’acciaio fuso e – nonostante i grandi fasci di luce – venivano totalmente buie. Lei racconta l’acciaio come l’elemento più importante negli Stati Uniti perché è la risorsa che porterà le persone a una vita nuova, anche se a un certo punto farà un discorso ideologico a favore dell’Unione Sovietica e di quel regime politico.
Emerge un forte ottimismo nei confronti del progresso.
Era fiduciosa tanto nella crescita industriale quanto nell’evoluzione della scienza: aperta, curiosa quasi come una bambina che si diverta a vedere le trasformazioni del mondo, e quest’attitudine è presente anche nei momenti più drammatici, così da sperare nella propria guarigione dal Parkinson. Impossibilitata a fotografare, inizierà a scrivere la sua autobiografia, convinta di essersi ammalata in un momento favorevole per la ricerca scientifica. Si ritiene fortunata, nonostante debba patire vent’anni di forti sofferenze e una condizione fisica irrimediabilmente compromessa.
Poggi, cosa vorrebbe che i visitatori di Camera cogliessero di questa grande artista?
Secondo me l’ aspetto importante, anche da un punto di vista stilistico, è il fatto che quando Bourke-White riprende ciò che sta davanti alla sua fotocamera, lo fa in una modalità costruita, mette in posa i soggetti, usa macchine di grande formato, si serve del banco ottico che ha bisogno di un cavalletto. C’è la volontà di fare la regia di una realtà che si traduce in immagini che non raccontano l’evento circoscritto, il dato empirico, ma sono emblematiche di una condizione. Ovviamente il punto di vista è quello americano, lei ritiene che gli Stati Uniti siano il posto migliore, però c’à la volontà di una narrazione più ampia, universale, una sorta di “divina commedia del ‘900”.
Anna SCOTTON
annas@vicini.to.it
Lascia un commento