In questo periodo buio, non ci resta che divertirci un po’ con ciò che la realtà ci offre, e se togliamo i numeri pandemici, le stucchevoli manovre politiche, le catastrofi ambientali e le ingiustizie sociali, bisogna davvero avere una dose di ottimismo spaventosa per trovare una sia pur minima ragione di umorismo. Ci ho provato, osservando la quantità e variegazione dei prodotti dolciari natalizi.
Parlo essenzialmente di panettoni e pandoro, anche se attribuirgli ancora queste denominazioni in certi casi è molto azzardato. Sono pochissime le strade non ancora percorse dagli ingegnosi pasticceri. Manca qualche contaminazione con le cime di rape e forse, ma non ne sono sicura, col gorgonzola, e poi i ripieni e gli impasti sono stati provati tutti.
All’iniziale panettone della mia infanzia, si aggiunse il pandoro, che trovò molti adepti tra gli odiatori del candito e dell’uva passa. E ci si poteva mica fermare lì, no? Da allora, anno dopo anno, i due ceppi di partenza sono stati contaminati con tutto ciò che di commestibile si trovava in fondo alle scorte. E così abbiamo il pistacchio, che ha una buona tenuta, lo zabaione della nonna, digeribile verso Carnevale, la glassatura di frutto della passione e le immancabili bacche goji che ancora non si è capito a cosa, ma fanno assai bene.
Personalmente, sono fedele al vecchio galupposo mandorlato piemontese e non mi schiodo di lì, ma ogni tanto sono tentata dalle sfide dell’imponderabile e prima o poi voglio provare il pandoro allo zenzero e toma di lanzo. Si sa mai che mi ci affeziono.
Giulia Torri
giuliat@vicini.to.it
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