“Vicini” ha raccolto quattro testimonianze di ex detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Questa è l’intervista a Giovanni (nome di fantasia che corrisponde a una persona reale).
Com’è l’impatto di entrare in carcere per chi non ci è mai stato?
Per me entrare in carcere è stato traumatico, per dieci giorni non ho dormito, mi sono trovato in un mondo che non mi apparteneva. Da persona diventi un numero, una matricola, che è quella scritta davanti alla tua cella.
Appena si entra in carcere si è messi nella sezione “Nuovi giunti” dove dovresti restare 15/20 giorni, ma io ci sono stato più di un mese. Non c’era nulla, nemmeno il cuscino.
Com’è il rapporto con gli altri detenuti? E con le guardie?
Si può instaurare un rapporto con gli altri detenuti ma non è sempre così. Con le guardie avevo un buon rapporto perché sono una persona che si adegua e non dà fastidio. Se ti conoscono e sanno che non dai problemi magari una parolina in più con te la scambiano.
Cosa le è mancato di più in carcere?
Mi è mancata soprattutto la famiglia, i miei figli, non sapere cosa facessero, come stessero e la loro vicinanza, ma anche le mie abitudini, la libertà, respirare, perché non è la stessa aria.
Com’è la concezione del tempo? Come lo trascorri?
O leggi o sei fortunato e lavori, per esempio per distribuire il cibo o segnare la spesa; io ho sempre lavorato e ho fatto anche un corso di pittura, giusto per evadere un po’ dalla cella perché dove ti giri ti giri hai intorno sbarre e vedi solo il cielo, per quel poco che riesci a vedere.
Secondo lei il carcere come istituzione adempie al ruolo di rieducazione dell’individuo?
No, un modo per rieducare il detenuto sarebbe dargli una chance, fargli capire che può avere la prospettiva di lavorare e tirarsi su, dargli una base da cui partire per ricostruirsi una vita. Tutto questo all’interno del carcere manca.
Io una volta uscito sono entrato in un progetto chiamato “Logos” che è finanziato dalla Banca San Paolo; è un percorso di inserimento nel mondo del lavoro che dura tre mesi, tutti i giorni dal lunedì al venerdì. Questo progetto però l’ho scoperto per pura fortuna: mancavano pochi giorni al termine della mia condanna e una signora dell’U.E.P.E. ( Ufficio Esecuzione Penale Esterna), vedendo che ero disperato perché non sapevo dove andare una volta uscito, ha mandato una richiesta da parte mia per entrare nel progetto. Mi sono messo in contatto telefonicamente con loro, ma dato che mancavano ancora una quarantina di giorni al mio rilascio, mi hanno detto che mi avrebbero richiamato. Successivamente sono andato all’Ufficio Pio a fare un colloquio ma all’inizio mi hanno detto che non mi potevano prendere, poi però mi hanno preso e ne sono contento, ma non c’è stato alcun intervento da parte del carcere, il fatto che sono entrato nel progetto, lavoro e ho un appartamento lo devo solo alla signora dell’U.E.P.E. E alla mia perseveranza.
Adesso abito in un residence che paga Intesa San Paolo, altrimenti sarei in mezzo a una strada. Io avevo tutto, avevo una casa e una famiglia mentre adesso non ho più niente, ho solo la mia dignità che è la cosa a cui tengo di più.
Ha riscontrato atteggiamenti diversi nelle persone per il fatto che è stato in carcere?
Nell’ambito lavorativo no perché lavoro per una cooperativa che assume solo ex detenuti. L’ambiente comunque non è dei migliori perché penso ci sia molto sfruttamento, lavoro lì da sei mesi e per l’accordo che la cooperativa aveva fatto con l’Ufficio Pio, mi avrebbero già dovuto assumere ma non l’hanno fatto, dovrebbero assumermi a settembre.
Il carcere garantisce quello che dovrebbe passare con una certa frequenza ad ogni detenuto?
Sì, ti passa quello che dovrebbe passarti ma è minimo, devi avere la fortuna o di avere qualcuno da fuori che ti dà soldi per lo “spesino” oppure di lavorare lì dentro e guadagnare qualcosa, per esempio il porta vitto guadagna 250/300 euro al mese.
Come si viene trattati all’interno del carcere?
Io sono entrato in pantalone, giacca e camicia in carcere e quando ho fatto la visita medica c’era una guardia che ha subito detto: “Chi è questo? Un truffatore?”. Ti fanno subito il vestito addosso anche se non sanno nulla di te. Le persone vanno trattate come persone e non per quello che hanno fatto, ognuno ha la sua storia. Quando sono andato al primo processo, mentre passavo per entrare sul pullman che mi avrebbe portato in tribunale, una guardia mi cantava una canzone napoletana dei carcerati, l’ho trovato sbagliato ed offensivo: non puoi sapere perché una persona è finita in carcere, si dovrebbe essere rispettati anche se si è detenuti. Non accetto che le persone si permettano di giudicarmi, io mi sono trovato in carcere nonostante avessi quarant’anni di lavoro sulle spalle e ci fossero solo prove indiziarie sul mio conto, non ho mai avuto niente a che fare con la giustizia prima di allora.
Quali sono le difficoltà maggiori che ha affrontato in carcere? Ci sono stati dei lati positivi?
La difficoltà subentra quando non hai nulla sul conto e non puoi nemmeno comprati una lametta.
Di lati positivi non ne ho riscontrati, quando sei in un posto così non ve ne sono di lati positivi. Forse è diverso per uno che entra ed esce dal carcere, ma per me è stata totalmente un’ esperienza negativa.
Chiara
chiaral@vicini.to.it
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