“A volte la tua gioia è la fonte del tuo sorriso, ma spesso il tuo sorriso può essere la fonte della tua gioia.” (Thich Nhat Hanh)

 

FASE 4 e oltre: un racconto. Parte prima

Un racconto ricevuto da un lettore; volentieri pubblichiamo

Si usa dire un’anziana coppia, ma la loro era sempre una coppia di ferro. Dopo cinquant’anni di lavoro, la maggior parte dei quali passati gomito a gomito nella piccola azienda familiare, un tumore risolto con molta paura e sofferenza, il sostegno reciproco nella cura dei genitori anziani, il loro era un rapporto solido ed irripetibile. Da quando erano andati in pensione vivevano in un appartamento del centro, con tutti i comfort.

Alle prime avvisaglie dell’epidemia si erano confrontati, ma la decisione era stata condivisa e tempestiva. Via dalla città, lontano da possibili focolai. Una vacanza protetta, garantita, sterilizzata.

Ma dove andate” dicevamo noi amici.

Noi abitiamo in centro, occasioni di contagio ce ne sono a bizzeffe

Ma falla finita, dipende da dove vai. Mica siete tipi da discoteca. Conterà anche la concentrazione del virus. Non è che lo spermatozoo di un bagnino di Rimini possa mettere incinta tutte le turiste della Riviera”. Stereotipo anni ’60, un affettuoso tentativo per fare breccia.

Anni prima, essendo senza figli e quindi senza legami territoriali, avevano vagheggiato un progetto: creare una piccola comunità con il gruppo di amici storici nella quale vivere la loro vecchiaia accuditi e scaricati dei problemi della vita di tutti i giorni. Il progetto aveva anche un nome: Villa Arzilla. A dispetto del fatto che il nome fosse poi stato scippato da una serie televisiva sit-com, il progetto aveva raggiunto un suo sviluppo: individuare una struttura adatta in un luogo salubre, non troppo isolata, con disponibilità di cucina in comune, piccoli appartamenti per le diverse coppie, locali comuni tra i quali un’infermeria in cui periodicamente avrebbe fatto servizio un medico.

L’idea era stata lasciata cadere, ma al momento del pensionamento la coppia aveva pensato di investire in un immobile nell’entroterra ligure, ed attrezzarlo ed arredarlo nel modo più funzionale possibile in vista di una vecchiaia confortevole e sicura. Un piano terra con una cucina spaziosa e salotto, camere per gli ospiti ed una badante e al piano superiore 2 camere, nel caso uno dei due si dovesse ammalare, a cui si accedeva tramite un ascensore in grado di trasportare (non si sa mai) una carrozzina. In caso di problemi di salute gravi gli ospedali distavano un’ora d’auto.

Lo stato di soggetto a rischio di lei imponeva cautela, anche se in realtà non avesse mai sofferto di patologie a rischio in relazione all’aggressività del virus. Avrebbero passato quelle 3 o 4 settimane come se fossero in quarantena, rischio zero. Coconizzati in un’isola, uno spazio neutro.

Le prime crepe del sistema Paese si presentarono quando Mattia, fiducioso nella tecnologia cercò di far arrivare i generi di prima necessità utilizzando una delle piattaforme che venivano pubblicizzate in TV. Una nota catena di supermercati garantiva la consegna a domicilio su prenotazione.

Come va il rifornimento viveri telematico?” chiedevamo.

Non sono ancora riuscito ancora ad ottenere una prenotazione

Eccessivo affollamento, o risposte in automatico “siamo spiacenti, prova più tardi”, fino a quando in realtà non si riceveva più alcuna risposta. Poco male. Fallita la tecnologia informatica fecero ricorso all’analogico: il mini market nel paese aveva accettato di buon grado la commissione.

L’esordio della fase dell’emergenza sembrava più che altro il solito teatrino all’italiana. Ma quante volte è stato inaugurato l’ospedale Covid di Milano Fiere?

Man mano che la situazione si aggravava, seguivano l’andamento dell’epidemia con ansia crescente: poi sfiniti dal rito della numerologia quotidiana, e dalla passerella di virologi di riferimento nei talk show, avevano deciso di trascurare i notiziari.

“Un mattone sul petto”. Così Wanda descrisse in seguito l’inizio del suo dramma.
I primi sintomi si erano presentati in marzo. Brividi, mal di gola, sensazione di oppressione al petto. Bruciore agli occhi.
Nel nutrito elenco della sintomatologia Covid comparivano agli ultimi posti. Ma comparivano.

Chiamarono subito il medico di famiglia. Sembrava una situazione clinica da definirsi con un tampone. Il medico invece appariva in imbarazzo, come se non fosse in grado di tentare una diagnosi. Recitò un protocollo fornito dalla Regione: elencava i sintomi sospetti: febbre, tosse; se ci fossero stati incontri con persone che erano state all’estero; se non riuscisse a trattenere il respiro per più di 10 secondi.
“37,5? No. Qualche linea di febbre ma non così” “Tosse insistente? No, solo respiro affannoso”. “All’estero no”

Terapia: Tachipirina. (“La tachipirina se non ho neppure la febbre?”)
Insistevano per il tampone e il dottore li rinviò al numero di riferimento della Regione. Rispose una persona gentile e formale: stesse domande poste in precedenza dal medico.
“Un tampone? Deve prescriverlo il suo medico di base”. Sembrava stessero palleggiandosi le responsabilità su un problema spinoso.
La Sanità pubblica non poteva essere di aiuto.

“Come faccio a liberarmi di questo peso che schiaccia il petto e le costole?” si chiedeva Wanda.
Pensarono così di rivolgersi al dottor Borio, il loro storico medico di famiglia, che li aveva assistiti pressoché da sempre ma si era ritirato da qualche anno. Lo rintracciarono per telefono in una località vicina dove era rimasto bloccato in una sua seconda casa. Spiegò subito che diagnosticare una polmonite interstiziale senza almeno una radiografia non era ipotizzabile: il medico di base si sarebbe opposto, anche a farlo privatamente (troppo pericoloso uscire di col rischio di essere positivi?). Anche l’amico radiologo che lavorava in ospedale, sconsigliava: “il protocollo prevede la permanenza in ospedale in isolamento. Fare solo una radiografia è persino difficile in caso di positivi diagnosticati. Poi, a casa in quarantena, tampone, quando disponibile, se positivo nuovo tampone…” Già. Un paio di giorni in una barella nel cooridoio dell’ospedale, senza potersi muover, senza nemmeno poter andare in bagno…

La cosa migliore secondo il dr Borio, visto che si trattava di sintomi lievi, era seguire il decorso della malattia restando a casa. Il primo consiglio, oltre ai farmaci usuali per le malattie respiratorie, era procurarsi un saturimetro per tenere sotto controllo il livello di ossigeno nel sangue. “Se supera 95 di ossigeno, può stare serena. Se si è a 92, bisogna correre in ospedale”.

Lo strumento era subito diventato il suo migliore amico.

Paura, ansia. Un bruciore al petto, un mal di stomaco facevano nascere il sospetto di un aggravamento e pensare con angoscia ad un ricovero.
Giornate di nuovo a seguire numeri; quanti letti si liberavano nelle corsie e nelle terapie intensive. Resistere.

Il Dr Borio seguiva, modulando i medicinali in relazione ai sintomi, Mattia aveva noleggiato un concentratore di ossigeno, una specie di elettrodomestico che, utilizzando dei filtri molecolari, attiva una produzione di ossigeno concentrato ottenuto dall’aria ambiente. Un dispositivo utile per una forma di supporto domestico alla respirazione, non utilizzato negli ospedali e quindi meno ambito, in questa contingenza, rispetto ai ventilatori.

Nonostante l’isolamento, si percepiva che qualcosa stava cambiando nel mondo esterno. Fino a due mesi prima eravamo vissuti con una precisa visione della società, dell’economia, una scala di valori. Ora eravamo piombati in una sorta di preistoria dell’umanità, in cui si trattava di reinventarsi un modo di vivere. Un nuovo modello organizzativo della società. Nascevano le prime iniziative per un ritorno alla normalità non appena fosse diventato possibile.

Ma accanto ai primi improbabili tentativi si faceva strada l’idea della digitalizzazione delle infrastrutture, di un cambio di passo strategie nella mobilità cittadina, le prime esperienze nella teledidattica. Alcuni ospedali stavano sperimentando un uso allargato della telemedicina per ridurre il carico di lavoro del personale medico.

Una notte Wanda si era svegliata con la testa che sembrava scoppiare. Mal di gola, fiato corto. “Eccola lì, è arrivata la febbre, mi sono detta. Ci siamo, domani chiamo il 118. E’ fatta”.

(continua)

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