FIAT Fabbrica Italiana Automobili Torino diventa FCA: Fiat Chrysler Automobiles. Il nuovo acronimo tenta di tenere insieme tutto, ma il legame col territorio è ormai irrilevante. Per carità non si può piangere: Sergio Marchionne ha preso due aziende in fallimento e non certo per il suo “maglioncino blu”, che ostenta, ne ha fatto la settima azienda automobilistica del pianeta. Quando mi lincenziai dalla Real Casa (così la chiamavamo in azienza) la FIAT era sull’orlo del fallimento. Arrivavo da dodici anni di operaio specializzato in FIAT Abarth (di corso Marche) dove avevamo vinto nei rally tutto quello che c’era da vincere. “Solo” cinque campionati del mondo con la Lancia Delta di cui, l’ultimo, dopo la decisione di Cesare Romiti di uscire dai rally e chiudere Corso Marche. L’ultimo campionato vinto non ostante la quella decisione fosse arrivata a metà delle gare gare ufficiali programmate e le proteste, mai andate sui giornali, dello sponsor Martini Rancing.
Certo il finanziere Romiti aveva dovuto estromettere dall’azienda l’ing. Ghidella, ultimo creatore di automomili nostrano, ma quello decise Romiti e la famiglia Agnelli glielo permise.
Ma gli effetti non furono quelli attesi e nei miei anni successivi in Direzione Tecnica del gruppo FIAT Auto ho avuto la possibilità di toccare con mano che l’innovazione automobilistica non era di casa, non ostante le innovazioni abbondassero nel Centro Ricerche FIAT. Per qualche motivo, che ancora oggi non comprendo, le innovazioni si lasciavano ai concorrenti e solo dopo si usciva sul mercato con soluzioni simili anche se non copiate perchè già pronte in casa.
Sergio Marchionne arrivò dopo che la famiglia, privata dal cancro, dell’erede designato, che noi chiamavamo Giovannino Agnelli, morì in giovane, ma adulta età. Con Marchionne il legame col la tradizione ed il territorio svanì e con lui la concezione calvinista e localista della famiglia.
Il mondo ha voltato pagina e cio che Torino e l’Italia hanno dato alla FIAT (miliardi di Euro) sono caduti nell’oblio.
Ciò che conta ora è solo il fatturato e la quota di mercato. Marchionne, ex alto dirigente di una delle banche svizzere più importanti del mondo, è apolide e i suoi legami (se li ha) non sono certo con Torino e con il nostro Paese.
Ha trovato una sponda nel Presidente Obama che però, legittimamente, ha preteso la restituzione fino all’ultimo dollaro del prestito fatto per acquistare la Chrysler in fallimento.
Ha trovato il sindacato americano che era, ed è, anche proprietario di Chrysler tramite il suo fondo pensioni, ma non riceverà nessuna richiesta di rimborso da parte dell’Italia, nè di Torino.
Già noi siamo fatti così: speriamo sempre nel buon cuore degli altri, ma la storia di FIAT è finita.
Sento riflessioni ottimistiche sul futuro del lavoro.
Rilfessioni di Letta, dell’Arcivescovo Nosiglia, del Sindaco Fassino: tutte concordano che anche se la sede legale sarà l’Olanda e quella fiscale il Regno Unito, l’importante è che qui in Italia si prosegua a produrre automobili.
Automobili per chi?
Valletta (noto comunista) aumentò gli stipendi ai dipendenti per far acquistare loro le macchine FIAT. Ora il lavoro da noi costa di più e non è più tempo di ideologie.
Quale falsità: sono tutte defunte nei loro effetti positivi. Il socialismo, il comunismo, il liberismo, il capitalismo. Tutte avevano in comune un diverso concetto di ridistribuzione della ricchezza, ma era comunque ridistribuzione. Ora la ricchezza è confinata agli utili, agli interessi sugli utili, ai dividendi, agli emolumenti dei top manager.
Tutto questo non ci piace?
Bene, l’alternativa è lo spostamento itinerante delle attività produttive che vanno lì dove ci sono migliori condizioni fiscali, finanziamenti freschi di stati “nuovi” o “rinnovati” e un lavoro che costa a livelli di nuova servitù libera.
E’ quello che si chiama ricatto, ma la nuova idelogia è il realismo realista.
(…) Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.(…) (…)Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono(…)
Queste parole furono scritte da un altro noto comunista il 15 maggio 1891: Papa Leone XIII nella sua Enciclica Rerum Novarum
Franco Fratto
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