Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

MEMORIA: l’irrealtà reale.

Distopia è il contrario di utopia,  quindi utopia negativa; i romanzi e i film distopici offrono una visione pessimistica e amara del futuro. Uno dei temi maggiormente affrontati nella visione distopica della società è l’invadenza  crescente dei media nella vita dell’uomo.

Memoria (prod. Italia 1992, 35 mm), del filmaker torinese Franco Fratto e ripresentato nei giorni scorsi al Cinema Massimo, entra a pieno titolo in questo dibattito, rivelandosi antesignano di una serie di pellicole successive che immaginano mondi irreali o di cartapesta, nei quali i protagonisti scoprono che quella che per loro è la “realtà” non costituisce altro che una facciata: si pensi, ad esempio, a The Truman Show e a Pleasantville,  del 1998,  o a The village e La donna perfetta, del 2004, pellicole dal maggiore respiro internazionale  e realizzate con ben altri  budget produttivi.

La vicenda di Memoria  è ambientata a Settia, nome ad hoc per una città che è il luogo dove “si girano le riprese” della vita del  protagonista, il quale non sa di trovarsi all’interno di un film iperrealista, in cui tutto è controllato da un onnipresente Centro di programmazione: inevitabile il rimando al film di Peter Weir,  in cui il personaggio principale si chiama Truman, ossia True Man,  uomo “vero”, in quanto è l’unico a  non recitare una parte nel set che è stato allestito per riprendere la  commedia  della sua vita.

La sensibilità del regista torinese l’ha portato, benchè fosse il film d’esordio, a realizzare un’opera interessante e profonda e a mettere in scena il virus che stava arrivando e che ha contagiato il mondo – la dipendenza dai media della comunicazione, a cui alludono tra l’altro le inquadrature insistite sui computer – anche se per i protagonisti di Memoria la catarsi finale apre alla possibilità di una liberazione dalla programmazione assoluta, rispetto a cui fino a quel momento erano pedine inconsapevoli.

“Lo strappo nel cielo di carta”, per dirla con Pirandello, è l’immagine della cattedrale senza il timbro di approvazione che accomuna la coppia di giovani di Memoria  e che ha la stessa funzione eversiva del biglietto  con la frase: “Ti amo”,  che Julia fa avere a Winston nel romanzo “1984” di George Orwell.

Ma, nel corso del tempo, si è assistito al ribaltamento della realtà: mentre sia nel romanzo orwelliano che nella riflessione di Franco Fratto  lo scopo è la liberazione dal controllo programmato,  oggi un gran numero di individui ambisce a farsi automa obbediente all’ occhio del “Grande Fratello” televisivo, di cui esistono decine  di versioni nel mondo, e di altri programmi nati sulla sua scia, in una tv  diventata ormai palcoscenico  dell’autorappresentazione.

Solleticando, come avverte Peter Weir, il bisogno voyeuristico di chi assiste: il cineasta australiano aveva compreso che quello dei Reality Show, nato negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni’90, era un fenomeno mediatico senza ritorno, attraverso il quale la vita sarebbe diventata finzione e la finzione  vita.

Si è passati, dall’essere protagonisti inconsapevoli, alla spettacolarizzazione delle esistenze, non più solo nella tv, ma anche e soprattutto nel web, come dimostra la presenza di decine di milioni di blog che affollano la rete o le pagine di diari personali rese pubbliche giorno per giorno sui social.

Lo sa bene Facebook che, per autopromuoversi, ha festeggiato il proprio decennale regalando ad ogni utente il suo film, animando le foto postate nel tempo: del resto “La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale» aveva preconizzato già nel 1967 lo scrittore, regista e filosofo francese Guy Debord, nel suo saggio “La società dello spettacolo”.

Senza dimenticare che l’esibizione pubblica della vita privata, nell’oscillazione inevitabile tra “essere” e “apparire”,  finisce col rendere sempre meno autentiche le nostre vite, i nostri sentimenti e noi stessi.

Anna Scotton

annas@vicini.to.it

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