Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

Gaetano Scirea, trent’anni di calcio senza il gentiluomo

 

Gaetano Scirea è scomparso il 3 settembre del 1989, in un incidente stradale in Polonia, a Babsk, abbandonando definitivamente la scena della sua storia ed entrando di schianto nella sua eternità. Aveva vinto tutto ciò che un calciatore poteva vincere, un grande campione scomparso troppo presto per la sua giovane età e per ciò che avrebbe ancora potuto dare.

Tante le occasioni di commemorazione che lo ricordano, un indimenticabile calciatore che ha avuto tuttavia il tempo sufficiente a lasciarci un’indelebile traccia legata non solo alle sue qualità di sportivo, ma soprattutto a quei valori di non comune ricchezza umana: il soprannome attribuitogli, “il gentiluomo”, delineava infatti quelli che erano considerati i suoi specifici tratti caratteriali e di comportamento, sempre rispettoso del prossimo come dell’avversario, umile e generoso, un fuoriclasse sul campo come nella vita.

Molti sono gli aneddoti snocciolati da parte di amici, colleghi, giornalisti sportivi, compagni di squadra e di vita, che testimoniano lo spessore e la misura dell’uomo, prima che dello sportivo.

Darwin Pastorin ha voluto ricordarci la grandezza di Gaetano Scirea con l’uscita del suo ultimo libro “Gaetano Scirea, il gentiluomo” edito da Giulio Perrone, nella collana Fuoriclasse, in cui spiega i trent’anni del calcio senza Scirea, ci racconta un’epoca, facendosi respirare un po’ del profumo di benevolenza e generosità, di rispetto reciproco, che caratterizzava i rapporti tra sportivi, anche nella rivalità.

Sorge spontaneo il confronto con i calciatori di oggi, rilevando il grande divario con i calciatori di ieri, penso a uno Zaccarelli, un Altafini, un Facchetti o un Graziani e un Pulici, sportivi che all’epoca i ragazzini idolatravano, con cui tappezzavano quaderni e diari, con le foto degli album di raccolta di figurine adesive, di indiscussa e distinta levatura. Incontrare e ascoltare la loro storia, le vicende di quegli anni attraverso il racconto delle pagine di Darwin Pastorin, evidenzia l’abisso con la realtà odierna, con calciatori molto più stipendiati, con compensi da capogiro, ma con valori impoveriti di quella ricchezza umana che caratterizzava in modo particolare il contesto sportivo di quegli anni, così vuoti dello spessore culturale definito non dal numero di libri letti, ma dalle aspirazioni a diventare e a formarsi come uomini migliori vestiti di integrità.

L’accento e l’importanza del business nel calcio ha senz’altro contribuito ad alimentare questo divario, come pure l’evoluzione della nostra società, che ha visto lo sbiadirsi di valori etici e morali, cedendo terreno ad altre misure, i soldi e il guadagno, lasciando l’umanità piegata al successo mediatico e al clamore virtuale del web.

Altri linguaggi, altre vesti, altre azioni, altre aspirazioni. Che non si può non interpretare come una sconfitta, perché gli idoli del calcio possono costituire – e spesso lo diventano – modelli e fonte di ispirazione per le nuove generazioni, investiti di una responsabilità troppo poco e assai di rado rimarcata.

Il libro di Darwin Pastorin è intriso di parole che nascono dal cuore, con uno stile originale che è di racconto breve, ma anche di lettera, un’epistola rivolta al grande Scirea, che Enzo Bearzot aveva battezzato l’Angelo Calciatore, in quel Mundial di Spagna del luglio ’82, e che qualcuno ha voluto nostalgicamente pensare come un angelo volato in cielo, forse ancora a giocare partite nel Regno dei Cieli.

Loredana Pilati

loredanap@vicini.to.it

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