Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

Odio digitale

La vicenda del suicidio (che si tratti di suicidio sembrano non esserci dubbi al momento) della ristoratrice Giovanna Pedretti ha portato alla luce un fenomeno di cui non tutti eravamo coscienti.

Non ci troviamo di fronte né a un fenomeno nuovo né, men che meno, a una questione nata con l’avvento di Internet e con l’affermarsi dei social network.

Viene fatta risalire all’arte della retorica: una particolare tecnica di discussione agonistica, orientata alla persuasione dell’interlocutore e degli astanti, che non richiedeva prove e/o argomentazioni a supporto delle tesi esposte. Ed è proprio quest’ultimo elemento – vale a dire la totale mancanza di prove e di argomentazioni – a individuare il minimo comune denominatore che accomuna tutti i discorsi d’odio, sia quelli passati, sia quelli attuali.

Nell’hate speech, difatti, l’attenzione non è rivolta ai contenuti esternati, ma è puntata soprattutto sull’interlocutore che li esprime, indipendentemente – e a prescindere – dalla ragionevolezza e dalla correttezza delle posizioni sostenute. Più nel dettaglio, lo scopo a cui mirano è quello di prevalere sull’altro, e lo strumento dialettico che viene utilizzato è quello dalla persuasione; aspetti che lo contraddistinguono, sia da altre modalità espressive, come ad esempio la critica o la satira, sia da altre fattispecie criminose, come l’ingiuria, la diffamazione oppure la calunnia.

Conta imporre se stesso e il proprio volere; per questo non tiene conto né della posizione né della persona dell’altro che non viene mai ritenuto un vero interlocutore; utilizza e sfrutta a suo favore le emozioni dell’uditorio; manifesta con toni accesi la propria opinione, dileggia l’altro e gli rivolge le proprie invettive

Si aggiungono “l’istigazione, la promozione o l’incitamento” alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo.

Mano a mano che le parole d’odio vengono espresse online, infatti, queste si diffondono subito, rimbalzando – ripetute e condivise – non solo all’interno di quella stessa piattaforma che, per prima, le ha ospitate, ma ovviamente anche all’interno di tutte le altre e dell’intero ecosistema digitale. Si assiste, così, ad un’escalation imprevista e imprevedibile. E’ il battito d’ali della farfalla che provoca disastri a chilometri di distanza.

Echo Chambers

Echo Chambers è il temine utilizzato per definire quegli ambienti di autoreferenzialità in cui ci infiliamo quando entriamo in un social network. Non conta più la ricerca non della verità, ma di notizie che confermino la nostra interpretazione della verità. Come selezioniamo foto, video e contenuti vari, ci comportiamo ugualmente con le news, selezionando quelle che ci piacciono di più. Fino ad andare a cercare sempre sulle stesse testate le notizie che confermano i nostri pregiudizi.

La dimensione digitale, poi, fa sì che i messaggi d’odio riescano a diramarsi in maniera istantanea e capillare.

Tra gli ì ingredienti sono la capacità dei messaggi di conservarsi attivi per un lasso di tempo indeterminato e di riemergere inaspettatamente. Magari perché, appunto, vengono condivise all’interno di un’altra piattaforma, oppure perché si legano ad altri contenuti o si arricchiscono di altre informazioni; poi, la capacità che i dati hanno di migrare autonomamente di piattaforma in piattaforma, Meccanismo e favorito dall’azione autonoma degli algoritmi che, di continuo, analizzano i dati e le informazioni immesse nel Web, le processano e, poi, le de-contestualizzano e le ri-contestualizzano in maniera inedita; e infine, ma non ultimo, l’anonimato, ovverosia quella specie di filtro magico che – dietro ai vari dispositivi, agli account, ai tanti possibili e fantasiosi nickname – cela la vera identità degli utenti. Elemento, questo, che induce soprattutto gli hater a sentirsi liberi di dar sfogo ai propri pensieri e alle proprie opinioni, senza alcun freno e nell’ingenua illusione di non essere identificati.

Leoni da tastiera

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta a autorizzazioni o censure (Cost art 21). La notizia è la notizia, il commento è libero”. C’è un “però“: l’Art.10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo definisce così la Libertà di espressione:

L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, dalla sicurezza nazionale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui…

I social networks sempre più si presentano come intermediari dell’informazione ed i motori di ricerca, con la previa selezione dei contenuti visualizzabili, tendono ad organizzare i risultati delle ricerche secondo i (pre-) giudizi dei visitatori, La maggior parte delle persone si costruisce e mantiene online una persona che è una versione in qualche modo potenziata di sé stessa,

I leoni da tastiera si arrogano il diritto di puntare il dito su qualsiasi situazione non gli vada a genio, o semplicemente sono disposti a dare il loro personale parere (spesso non richiesto) su altre persone o argomenti vari.

Unendo la frustrazione ad un’ignoranza di base data da più fattori come spesso poca scolarizzazione, mancanza di disciplina, e analfabetismo emotivo, insieme alla percezione di essere protetti da uno schermo, abbiamo già una veloce descrizione del perfetto leone da tastiera.

Una pluralità di ogni ordine e grado di tutti i ceti sociali, pronti a scatenare discussioni su discussioni, per il solo gusto di manifestare sé stessi, in un moto di autogratificazione come fossero su un palcoscenico dove chi legge sono gli spettatori che applaudono. L’effetto “trolling”, cioè il commentare in modo aggressivo e offensivo, dipende non solo dalla cattiva disposizione del soggetto che aggredisce, ma anche dal contesto della discussione.

Prontuari che suggeriscono contromisure ce ne sono: non rispondere alle provocazioni, non alimentare la polemica. Ricordando che il  tono, nelle comunicazioni orali, è veicolato con i segnali non verbali, le espressioni facciali la postura del corpo, il contatto visivo, la voce. Online, siamo insomma meno capaci di interpretare le comunicazioni testuali con precisione. E mettiamoci la necessità della sintesi.

Durante una discussione bisogna tener presente della totalità degli spettatori che stanno assistendo; se rispondo ad un commento pubblico sui social, non siamo solo in due a leggere le risposte, ma un vastissimo pubblico che potrebbe reinterpretare il messaggio e usarlo anche in un secondo tempo in maniera diversa. Magari ci sono dei bambini.

Il Centro Assistenza di Facebook offre un servizio di segnalazione di contenuti offensivi o contenuti che violano gli standard della Community. Ci sono varie modalità con cui l’utilizzatore stesso o Fb possono intervenire.

Dal canto loro i giornali si servono di gruppi di lavoro di Fact Checking, sempre più supportati da automatismi e IA, per accertarsi delle veridicità delle notizie. Nella trasmissione di “Porta a porta” del 16 scorso è intervenuto David Puente, vice direttore di Open (giornale on line fondato da Enrico Mentana) capo team di un progetto di Fact Checking, che mira a monitorare le notizie false o fuorvianti, fornendo un servizio di corretta informazione e degli strumenti necessari ai cittadini per imparare a riconoscere le bufale.

Il suo, dice Puente, è un mestiere che non dovrebbe esistere.

Gianpaolo Nardi

gianpaolon@vicini.to.it

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