Come ogni anno dal 2008, in occasione del 27 Gennaio (diventato nel 2000 Giorno della memoria in Italia), la Cascina Roccafranca in via Rubino a Torino, ospita dal 18 Gennaio al 6 febbraio, la mostra fotografica di Renzo Carboni per commemorare le vittime della deportazione.
La mostra di quest’anno ha il titolo “Ravensbrück tra scrittura e fotografia” ed è composta da 35 fotografie ognuna accompagnata da una didascalia tratta dal libro “Le donne di Ravensbrück” di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone, la prima, superstite italiana del campo di concentramento femminile di Ravensbrück, la seconda, sua amica e concittadina di Mondovì.
Come afferma Renzo Carboni, il libro gli è stato di ispirazione : “Il libro Le donne di Ravensbrück, mi ha offerto la possibilità di trasformare alcuni passi in fotografie e sono state le stesse parole a guidarmi, come se facessero parte di una sceneggiatura cinematografica e a suggerirmi il passaggio dalla memoria scritta alla memoria visiva”.
Renzo Carboni coltiva da una ventina d’anni insieme a Maria Luisa Quirico, ex maestra elementare, l’interesse di scoprire cosa furono i campi di concentramento attraverso la lettura e le numerose visite fatte di persona come quella a Ravensbrück, che li ha anche portati a proporre nelle scuole attività inerenti al Giorno della Memoria.
Il 18 Gennaio abbiamo partecipato all’inaugurazione della mostra in cui sono stati presentati, oltre alle foto di Renzo Carboni, i lavori svolti dalle classi VB e VC dell’istituto Majorana di Torino inerenti al tema della deportazione e in cui è intervenuto Aldo Rolfi, il figlio di Lidia Beccaria Rolfi.
Abbiamo avuto il piacere di parlare personalmente con Renzo Carboni e Maria Luisa Quirico e porger loro alcune domande:
Quando e soprattutto da cosa è nata l’idea di organizzare mostre fotografiche che testimoniano la realtà dei campi di concentramento?
Maria Luisa Quirico: “E’ vent’anni che giriamo per l’Europa per visitare i luoghi in cui si è compiuta la deportazione. E’ iniziata come curiosità nostra poi vedendo che ci interessava molto a livello personale abbiamo approfondito l’argomento leggendo anche testi al riguardo, Renzo ha iniziato a fare delle fotografie e abbiamo pensato di metterle in esposizione per dare il nostro contributo alla trasmissione della memoria”
Cosa vi ha spinto a chiedere quest’anno la collaborazione delle scuole superiori? Avete ottenuto il risultato sperato?
“Il coinvolgimento delle scuole è iniziato subito dalla prima mostra del 2008, come ex maestra elementare, ho pensato di non presentare solo le foto ma coinvolgere anche le scuole, fino a quando è stato possibile con progetti fatti direttamente dai bambini delle scuole elementari poi cercando di coinvolgere con visite private. Per quanto riguarda il progetto di quest’anno abbiamo scelto le scuole superiori perchè abbiamo elaborato un progetto didattico per lavorare sulle immagini di Renzo e sul testo di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone che è consistito nel mettere insieme le foto di Renzo e le didascalie tratte dal libro in modo che i ragazzi capissero che c’è un nesso stretto tra testo e immagine e che l’immagine è un altro modo per trasmettere la memoria. Nella stesura del progetto inoltre abbiamo indicato un eventuale viaggio a Ravensbrück, poi le insegnati hanno aderito.”
Parlando in particolare con Renzo Carboni gli abbiamo fatto domande specifiche sulle sue fotografie:
Osservando le sue fotografie si nota subito che sono particolari, non rispettano i canoni standard, sono per esempio sbilenche, sfocate. Come mai questa scelta?
“E’ dalla seconda metà degli anni settanta che fotografo, mi sono formato nell’ambito dei foto club il mio modo di fotografare comprende un orizzonte piuttosto ampio, le scelte stilistiche sono retaggio di tecniche che ho imparato negli anni: ci sono elementi cinematografici, fotografia pura, suggestioni artistiche. Nel ’96 io e Marisa abbiamo fatto un viaggio a Monaco di Baviera e ho fotografato il primo Arbeit macht frei sul cancello del campo di concentramento di Dachau e da questo primo scatto ho capito che bisognava indagare in questo verso. Così nel 2008 siamo riusciti ad allestire la prima mostra e già allora le foto erano sbilenche e sfocate, negli anni ho imparato a padroneggiare la tecnica di stampa e attraverso i numerosi libri che ho letto ho trovato le indicazioni per come realizzare le mie foto. Il fatto che le foto siano sbilenche è un retaggio del cinema tedesco degli anni ’10 e del cinema americano degli anni ’40, del genere noir, e hanno a che fare con la rappresentazione cinematografica dei sogni e degli incubi; infatti c’è una logica da incubo dietro a queste inquadrature, sono non a caso poco rassicuranti. Inoltre con la macchina fotografica che utilizzo posso mettere a fuoco a mio piacimento determinati elementi, è la tecnica che ho utilizzato nella foto della lista di trasporto delle deportate di Ravensbrück dove si legge solo il nome di Lidia e il numero di matricola, poi tutto il resto è come se precipiti verso un nulla indefinito, c’è un’anticipazione di quello che sarà il futuro di queste donne. ”
L’assenza dei volti nelle tue fotografie invece a cosa è dovuta ?
“Questa è una scelta dettata dalle circostanze perchè io ho fotografato dei volti in altri percorsi ma in quello di Ravensbrück l’unico volto che c’è è il mio, non è un caso, è come dire che io in questo senso sono il testimone. Nella fotografia 34 c’è la mia presenza fantasmatica dietro la teca, non è un vezzo autoriale ma il desiderio di partecipare emotivamente a questa vicenda e l’unico modo che ho per esprimerlo è mettere la mia ombra. In altre mostre ho usato la figura di Marisa ma riprendendola da lontano in maniera che non si vedesse che fosse lei, una tecnica usata anche nel cinema. Il fatto di utilizzare queste tecniche risponde al fatto che oggi non puoi raccontare una cosa così complessa come ciò che è stato il concentrazionismo, senza avvalersi della complessità dell’arte. ”
Come mai le fotografie sono tutte in bianco e nero?
“Perchè sono stato allevato così, negli anni ’70 la fotografia in bianco e nero era quella più praticata. Ho voluto credere nel bianco e nero. Faccio foto a colori solo con una macchinetta digitale solo a carattere documentario ma le foto che espongo sono tutte in bianco e nero magari con alcuni inserti di colore aggiunti con la post produzione con la quale intervieni a copia stampata e puoi colorarla, grattarla, strapparla. ”
Questa è la prima volta che le fotografie hanno didascalie associate?
“In tutte le mostre che abbiamo fatto c’erano didascalie ma in quelle precedenti non provenivano da un unico libro come per quella di quest’anno, avevamo un misto: alcune provenivano da saggi, altre da testi di filosofia, poesia oppure pensieri miei”
Dove sono state scattate le fotografie esposte alla mostra? Solo a Ravensbrück?
“La mostra è uno sguardo sull’intero comprensorio del campo di concentramento, anche sulla fabbrica della Siemens dove lavoravano le detenute e che non è aperta ai visitatori. Ci sono anche altre foto prese da altri posti che però servivano per descrivere la storia di Lidia come la foto della Divina Commedia che si intravede attraverso l’abbottonatura della camicia che ho fatto nella nostra casa in montagna.”
C’è una foto di cui vai più soddisfatto?
“Una c’è per una motivazione psicologica, è la 35, quella con il filo spinato evanescente ai lati. Li non c’è una descrizione precisa di Lidia, lei dice che sta uscendo fuori dal campo però non sa se è ancora la libertà perchè appena dietro di lei alle spalle c’è questa terribile esperienza che continuerà a condizionare la sua esistenza e il filo spinato sfocato lo sta a rappresentare; poi in alto a sinistra il cielo è denso e nero perchè dietro ci sono il campo e il forno crematorio. Sceglierei questa foto perchè rappresenta un suo stato d’animo che io ho rappresentato con la forza della fotografia.”
Cosa vorresti che saltasse per prima agli occhi dei visitatori della mostra, appena guardano le tue foto?
“Preferisco vedere il terrore nell’occhio dell’osservatore. Vorrei che non capisse cosa si trova di fronte. Tra l’altro viviamo in un’epoca in cui l’educazione all’immagine è assente, la gente guarda le foto e non capisce cosa vede, con la mia fotografia cerco di far sorgere domande piuttosto che dare risposte.”
A livello personale cosa credete di aver appreso dalle esperienze che continuate ad avere riguardo alla deportazione e cosa vorreste trasmettere principalmente ai visitatori della mostra?
Maria Luisa Quirico: “Da quando è nato quest’interesse abbiamo cercato di svilupparlo dalla conoscenza del problema; come ha detto Lidia Beccaria Rolfi nell’ ultimo video che abbiamo fatto vedere alla presentazione della mostra: si deve conoscere il passato per poter intervenire sul presente. Dopo vent’anni di ricerche siamo abbastanza ferrati sull’argomento quindi il nostro desiderio sarebbe trasmettere quello che abbiamo imparato anche ai giovani. E’ necessario che i ragazzi conoscano questa realtà perchè altrimenti non possono comprendere nemmeno il presente.”
Renzo Carboni: “Mi sento di rispondere con un pezzo di una poesia di Kostantinos Kavafis: ciò che hai fatto non è poca cosa. Questo per dire che ciò che facciamo è un lavoro immane ma lo si fa perchè ormai è diventato un imperativo categorico, ci crediamo. Ho conservato la memoria attraverso la fotografia, se avessi potuto scrivere avrei scritto romanzi e quant’altro, non so scrivere, quindi fotografo.”
Chiara Lionello
chiaral@vicini.to.it
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