Dopo un felice debutto – I fantasmi di San Berillo, migliore documentario italiano al Torino Film Festival 2013 – Edoardo Morabito, ha presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2023 l’ultima sua opera, L’avamposto, in programma in questi giorni al Cinema Massimo. Morabito, classe 1979, regista, montatore e docente presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, anni fa era venuto a conoscenza del sogno utopico di uno scozzese trapiantato in Brasile, Christopher Clark, ed era andato ad incontrarlo. L’uomo, una sorta di “ecoguerriero” , viveva da più di due decenni in Amazzonia, dove aveva creato un “avamposto” del progresso: una comunità di locali rispettosi della natura, che vivevano con spirito egualitario, attivando un’economia e un turismo sostenibili. Quando un grande incendio minaccia di distruggere quell’area incontaminata della foresta pluviale, Chris cerca di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale organizzando un concerto dei Pink Floyd, che spinga il governo brasiliano a trasformare quel territorio in una riserva. Il regista empatizza con il protagonista, una figura che simboleggia le contraddizioni della nostra epoca, coinvolto nel suo disegno utopico più che dalla stretta denuncia sociale, da leggersi semmai in filigrana, perché come sosteneva Brancati «Il sociale nell’arte è come l’acqua sul fuoco».
Morabito, il lavoro di documentarista consente di rispecchiare meglio la realtà?
Il cinema del reale o –come si chiamava negli anni ’60 – “cinema veritè” è un’illusione, è un equivoco: l’autenticità totale non esiste, lo sguardo del regista, attraverso la macchina da presa, è a sua volta un personaggio. Nel cinema documentario c’è un rapporto dialettico tra la macchina e la realtà: ci sono protagonisti, storie, l’opera obbedisce alle leggi della drammaturgia. Tutto il cinema è documentario, nasce documentario.
Questo film rivela anche il suo impegno politico?
In senso novecentesco, io credo che tutto sia politica. L’etica nel fare non esiste solo se stai girando un documentario, il cinema è un modo di guardare il mondo e guardare il mondo è fare politica. Ogni inquadratura si pone in un certo modo nei confronti della realtà, non credo che il documentario sia maggiormente legato al sociale, anche la fiction entra nel dibattito politico (vedi “Io capitano” di Garrone). Io non ho fatto un’inchiesta, un documentario giornalistico, scientifico: per me il problema ambientale è il “coté”, è presente, ma nel filmato c’è soprattutto un personaggio, che ha una storia da raccontare.
Il tema ambientale nel film viene affrontato quasi lateralmente.
La vicenda di Chris consente di evidenziare le contraddizione della nostra epoca. Per salvare un luogo incontaminato, si pensa di organizzare – attraverso la macchina dello spettacolo – un concerto, che verrebbe “consumato” dallo stesso mondo che lo sta distruggendo: come se la foresta per salvarsi dovesse diventare una merce anch’essa.
Clark aveva visto il film Fizcarraldo?
L’aveva visto, ma c’è una differenza, perchè Fitzcarraldo racconta un sogno folle, imposto in una realtà esotica, con atteggiamento neocolonialista. Si potrebbe ritenere che anche l’atteggiamento di Chris lo sia, ma lui per 30 anni ha lavorato con gli indigeni e il progetto del concerto l’aveva concepito con loro, anche se – di estrazione borghese, figlio di un editore – era Chris ad avere i contatti con persone facoltose che potevano sostenerli economicamente.
C’è un aspetto quasi spirituale nell’impegno di Chris.
La sua storia fornisce un ulteriore importante elemento, insito nel suo sogno: del cambiamento climatico dobbiamo iniziare a parlarne anche in termini di desiderio, non solo di dovere o di punizioni bibliche. In Chris c’è una necessità intima: quel desiderio era compenetrato con la sua vita e coincideva con le istanze del pianeta. Se non diventerà un nostro desiderio avere un certo tipo di pianeta, un certo tipo di futuro, c’è poco da fare…lo si deve desiderare, si deve preferirlo.
Anna SCOTTON
annas@vicini.to.it
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