Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

Alfredo Casella: un orgoglio tutto torinese

«Quando qualcuno mi dice “a me piace la musica contemporanea” mi fa un po’ l’effetto di chi dice “tra i miei migliori amici ho degli ebrei e dei negri”, affermazione che implica sempre la possibilità di un forno crematorio e dell’impiccagione!» (Luciano Berio)

Nato a Torino nel 1883, Alfredo Casella ricevette la prima formazione musicale in famiglia: il padre, violoncellista e insegnante al Conservatorio di Torino, la madre, donna di straordinaria cultura che lo iniziò allo studio del pianoforte. Nel 1896 si iscrisse al Conservatorio di Parigi, nella classe di pianoforte e successivamente ai corsi di armonia e contrappunto per poi seguire, dal 1901, le lezioni di composizione tenute da Fauré. Dopo il lungo periodo vissuto in Francia e le prime soddisfazioni in carriera, tornò in Italia e nel 1915 ottenne la cattedra di pianoforte al Conservatorio di Roma; nel 1917 contribuì a fondare la Società nazionale di musica (poi Società italiana di musica moderna). Nel 1930 fondò il celebre Trio Italiano con Bonucci e Poltronieri e organizzò il primo Festival internazionale di musica contemporanea a Venezia (col suo corredo di immancabili e vivaci e proteste). Dirigendo poi le Settimane senesi riuscì a promuovere la conoscenza di una parte del patrimonio musicale italiano altrimenti misconosciuta (Cavalli, Torelli, Bassani, Steffani ecc.), finché nel 1942 una grave malattia lo costrinse ad abbandonare le consuete attività didattiche e concertistiche. Pur gravemente provato continuò a comporre, dare lezioni di pianoforte da casa e mettere a punto revisioni ed edizioni critiche dei grandi musicisti del passato (J. S. Bach, Mozart, Chopin ecc.). L’ultima apparizione in pubblico come pianista ebbe luogo all’Eliseo di Roma l’11 febbraio del 1947: la sua morte sarebbe avvenuta il 5 marzo successivo, a poche settimane di distanza.

Il suo archivio, che documenta la sua vita dal 1890, è stato donato dagli eredi Casella alla Fondazione Giorgio Cini il 25 ottobre 2001. Esso comprende circa 23000 documenti in originale e copia fotostatica o fotografica, relativi alla carriera artistica di Alfredo Casella e riguardanti manoscritti musicali, scritti vari, programmi di concerti, recensioni e saggi. Nella sua produzione si rivela un’evoluzione che, partita da premesse post-romantiche (Mahler e il primo Schönberg), entra poi nella temperie cosiddetta “oggettiva” alla Stravinskij. Tra i suoi lavori emergono le opere teatrali La donna serpente (1932), La favola di Orfeo (1932) e Il deserto tentato (1937), i balletti Il convento veneziano (1912), La giara (1924) e La rosa del sogno (1943), la Sinfonia per grande orchestra (1940) e la Missa solemnis Pro pace per soli, coro e orchestra (1944). L’ultima composizione citata, magniloquente e testamentaria, merita una particolare attenzione e, se è lecito sognarlo, qualche esecuzione in più (almeno in territorio italiano).

Mille miglia lontana da seduzioni coloristiche, evocazioni onomatopeiche, atmosfere arcadiche e incantesimi poetici appare questa scabra e sofferta messa. La partitura, intitolata Missa solemnis Pro pace, riporta le date «6 giugno – 23 novembre 1944». Il 6 giugno 1944 Roma veniva liberata dall’occupazione tedesca: l’aver iniziato in quel giorno preciso la stesura della messa, da tempo meditata, costituisce di per sé la testimonianza del carattere che il compositore intendeva conferire a quest’opera, concependola come un ex voto di ringraziamento per la salvezza dai pericoli generali che avevano minacciato la cittadinanza romana e da quelli particolari che incombevano sulla sua famiglia a causa delle origini di sua moglie. Con la qualifica votiva Pro pace Casella intendeva poi estenderne il significato a invocazione per le sorti di tutta l’umanità che, in quel periodo, era ancora messa a repentaglio dagli ultimi, tragici sussulti della guerra. Le condizioni in cui il Maestro si accingeva alla composizione della messa venivano rese se possibile ancor più drammatiche dalla malattia che lo ucciderà: alla luce di tale circostanza appare ancor più significativo il fatto che Casella abbia voluto concepirla come un vero e proprio coronamento di tutta la sua attività creatrice, come summa delle sue esperienze umane e stilistiche. Ed è anche per questo che, come giustamente ebbe a osservare Massimo Mila, Casella ha inteso “cimentarsi con un grande genere musicale che egli non aveva ancora toccato, e verso il quale d’altra parte lo conduceva la sua evoluzione artistica degli ultimi anni, caratterizzata da una pacificazione con se stesso e con il passato musicale, da lui compreso con sempre più larga, cattolica accettazione”. Legami col passato che si andavano peraltro esplicitando in quel tempo in virtù dell’assiduo lavoro all’edizione critica delle opere clavicembalistiche bachiane, postuma come una biografia di Beethoven che Casella tracciò sulla base dell’epistolario beethoveniano. Gli esempi di Bach e Beethoven si riflettono nella messa, come del resto in tutta la musica dell’ultimo periodo creativo di Casella: quello di Bach trova un’eco concreta sul piano della razionale impostazione architettonica del piano formale, mentre l’esempio di Beethoven sembra aver agito sul piano morale circa l’impegno nel superare ogni sofferenza, riscattando per mezzo dell’arte la drammatica negatività della condizione umana. Col suo comportamento di uomo e di artista Casella veniva offrendo, da parte sua, un esempio ai suoi numerosi allievi e discepoli: l’opera è dedicata proprio al devotissimo Fedele d’Amico.

Matteo Gentile

matteog@vicini.to.it

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