Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

E’ “ancora” la stampa, bellezza?

Si può ancora avere fiducia nei giornali e nelle TV in Italia?

Questa la domanda che dà il titolo all’incontro avvenuto venerdì scorso presso il Collegio degli Artigianelli  di corso Palestro.

A cercare di dare una risposta o quantomeno a capire le ragioni della crisi dell’editoria  attuale, un gruppo di giornalisti provenienti da diverse testate: Umberto la Rocca, del giornale online Open edito e fondato da Enrico Mentana,  Fabio Martini, inviato di politica del quotidiano “La Stampa”, Roberto Tricarico, ex Ass.re Città di Torino, ex-capo segreteria del Sindaco a Roma, Roberto Placido, Presidente di OfficinaTech S.r.l.

Moderava la giornalista Barbara Notaro Dietrich.

I numeri riportati per documentare la gravità della situazione delle testate giornalistiche sono sconfortanti:

Nel 1945 si vendevano 4.564.000 giornali al giorno

Dal 2008 al 2016 le vendite sono passate da 5.200.000 a 2.610.000

Dal 2016 al 2021 sono calate ulteriormente da 2.600.000 al giorno a 1.024.000.

E’ come se dal 2008 in poi ci sia stato un crollo verticale della fiducia collettiva nella politica, nell’informazione e nell’autorità in genere.  Gli italiani hanno salvato dal fallimento solo  l’arma dei carabinieri e la presidenza della repubblica.

L’avvento di Internet, che all’inizio sembrava promettere un’informazione più diffusa e quindi una maggior consapevolezza e possibilità di formare giudizi critici ed  autonomi, si è rivelato un boomerang: dando voce alla parcellizzazione delle fonti ne ha di fatto annullato l’attendibilità. La rete ha democratizzato il sistema, ma lo ha reso fragile.

Eppure, riflettendo sulla qualità del giornalismo del primo dopo guerra, nei telegiornali delle reti Rai, per esempio, si sa che venivano riportate solo le posizioni del governo, quindi la possibilità di creare pensiero critico sembrerebbe svantaggiata, e allora? La gente si fidava. Guardava il TG, leggeva i giornali e credeva in quello che dicevano.

Queste riflessioni hanno portato alla conclusione, non originale perché se ne parla da un bel po, che il fenomeno ha un solo nome: sfiducia.

Analizzare i motivi di questa crisi è compito di uno studio che dovrebbe riguardare sociologhi, psicologhi, politici, intellettuali e che per ora non pare si veda all’orizzonte.

Si è provato anche ad individuare le colpe di  editori, giornalisti e intrattenitori di talk show.

Gli editori attuali non sono mai “puri”. Cioè hanno praticamente tutti una rete di interessi economici che inevitabilmente vanno ad influenzare i contenuti dei giornali e delle reti televisive che usano come strumenti di pressione.

I giornalisti, nella maggior parte dei casi assecondano questi interessi  e spesso ci troviamo di fronte ad  un giornalismo “sondaggista”. Anzi, si è creato il termine “SONDOCRAZIA” che a quanto pare ha sostituito, anche in politica, tutti gli altri tipi di “crazie”.

Gli  intrattenitori di talk show ( e qui le critiche non sono mancate, dure e pesanti) agiscono da  prime donne, si circondano di “compagnie di giro”, sempre quelle,  che si assecondano a vicenda in un gioco dei ruoli ripetitivo che quasi nulla ha più a che fare con l’informazione. Ciò  fa in modo che più che dibattiti sul  che cosa, si facciano sul chi. E spesso i giornalisti vogliono “formare” più che “informare.  Formare crea audience.

Sempre per dare due numeri: il giornale che raccoglie più fiducia è Fan page, seguono TG com 24, soloal terzo e quarto posto Corriere e Repubblica.

Cercando di comprendere il successo di Fanpage, la spiegazione che sembra più ovvia è che qui viene usato un linguaggio molto semplice, quindi comprensibile.

Insomma la soluzione sarebbe un giornalismo che ritorna alle origini: fa inchieste, informa e lascia che il lettore/spettatore si crei un giudizio personale senza essere sottoposto a pressione. Fabio Martini ha ricordato Sergio Zavoli, che nelle sue interviste appariva raramente, lasciando che si inquadrasse principalmente l’intervistato. Diventava quasi strumento per permettere a chi ascoltava l’intervista di basarsi, nel giudizio finale,  solo sulla domanda in merito all’argomento trattato e sulla risposta.

Gran giornalismo di una volta?

Risposte non ce ne sono state.

 

Giulia Torri

giuliat@vicini.to.it

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