Socchiudo gli occhi e trattengo a lungo l’aria della notte nei polmoni.
È la stessa che ho respirato fin da bambino seduto accanto al nonno, il baluginare della sigaretta accesa a illuminarne il viso, dedalo intricato di strade rugose senza una meta. Il buio d’Africa tutt’intorno è vinto dal chiarore di stelle seminate a spaglio su di un cielo orfano della luna. Il profumo piccante della zuppa d’arachidi e foglie di uzaki, cucinata in un giardino di polvere, è invece un ricordo perso nel tempo che riemerge avvinghiato alla spuma di mare, improvviso come uno schiaffo alla salsedine che il vento stampa sul mio volto stanco.
Butto fuori il fiato. Tutto in una volta. Senza far rumore.
Qualcuno urla da un punto indefinito della spiaggia. È il segnale. Faccio un passo in avanti, sulla sabbia resta un’impronta fugace. Immergo i piedi nell’acqua e un brivido corre lungo la mia schiena nuda. Salgo…
…sulla carrozza ferma a Lingotto. Si riempie in fretta, un’onda di corpi coagula nello spazio di luce prima che le porte si chiudano con un sibilo. Cerco gli occhi di chi mi sta accanto ma la loro attenzione è rivolta al cellulare. Alla fermata successiva ci stringiamo ancora. La metropolitana riparte e prende velocità. Ondeggia lieve nelle viscere di Torino. Poi uno scarto improvviso…
…e la barca s’inclina da un lato. Siamo stretti come un banco di sardine, un singolo organismo pensante che si sposta all’unisono per incutere timore ai predatori. Quel movimento repentino del barcone tradisce un paio di ragazzi che siedono sul lato opposto al mio. Cascano in mare senza un lamento, inghiottiti da un buio liquido e freddo chiamato Mediterraneo. Io stringo forte la falca di legno, le nocche delle mani livide per lo sforzo. Mi aggrappo a quello che ho lasciato indietro perché le promesse di un padre sono corde che non possono essere recise.
«Tornerai, papà?»
«No piccola mia, ma un giorno ci rivedremo…»
Salimah mi fissa senza dire altro, senza comprendere appieno le parole sussurrate al suo orecchio di bimba. È nata una mattina di primavera, come la nebbia fine, gli infiniti riverberi dei raggi di sole sul mare e i buoni propositi. L’ho cullata lentamente tra le mie braccia. Odorava di nuvole bianche, latte di cocco e sogni da realizzare.
Un mormorio irrompe in quei pensieri e luci sfocate increspano l’orizzonte. I muscoli si contraggono, pronti per raggiungere la riva. La barca dondola, danza con le onde come un amante appassionato, sospinta dalle invisibili mani della corrente e rallenta…
… per fermarsi a Porta Nuova. Sono trascinato da una marea umana verso le scale mobili. Le note soffuse di un pianoforte mi afferrano e mi spingono in l’alto, come un germoglio che sbuca timido dalla terra bruna.
Il sole filtra dalla vetrata e mi abbaglia per un secondo. L’atrio è affollato.
Mi fermo e la vedo. La riconosco dagli occhi, perché gli occhi non cambiano. Mai.
Sbatto le palpebre e il resto svanisce. Il tempo si ferma.
Siamo soli. Io e lei.
Salimah si volta e i nostri sguardi si abbracciano a metà strada. Non si muove.
È cresciuta in questi cinque anni, le gambe magre come canne di bambù, i capelli raccolti in treccine, le labbra sottili, lo smalto azzurro sulle unghie.
La osservo mentre le lacrime decidono di darle il loro benvenuto.
Sorridiamo, per un attimo appena.
Poi d’improvviso le persone riappaiono e il tempo riprende a ticchettare.
Noi iniziamo a correre, uno verso l’altra per raggiungere la fine di un viaggio che è anche l’inizio di una vita nuova perché tutto cambia in fretta, anche solo in dieci minuti, anche solo tra Lingotto a Porta Nuova…
Autore
Davide Ceraso
Lascia un commento