Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

La “nascita di Internet”

Il 29 ottobre 1969 c’è stato un fatto che , oggi, è ricordato come la nascita di Internet. Infatti tra momenti epocali della storia umana, di questo si conosce con precisione l’attimo nel quale è iniziato: le 22.30 del 29 ottobre 1969.

E’ quella l’ora esatta nel quale è stato inviato il primo messaggio tra un computer e un altro, utilizzando la rete Arpanet. A sovrintendere quel momento storico è stato Leonard Kleinrock.

È la sua teoria matematica della commutazione a pacchetti che ha consentito di connettere in modo remoto due macchine. Prima un calcolatore all’University of California (Ucla) e uno allo Stanford Research Institute, poi a collegarsi è stato il mondo intero.

Riprendiamo qui alcuni passaggi dell’intervista che Davide Ludovisi ha realizzato per Wired perché alcune risposte possono chiarire questa svolta nella storia delle comunicazioni che si trasformata in una rivoluzione dello stile di vita di ognuno di noi.

(…)

Davide Ludovisi : Molti la definiscono il padre di internet. Cosa ne pensa di ciò?

Leonard Kleinrock : “Sono uno dei padri. C’è stato il contributo di molte persone, non sarebbe corretto affibbiare un unico padre a internet”.

DL: Lei e i suoi colleghi eravate consapevoli di fare la storia quella mattina del 29 ottobre 1969 o era semplicemente uno dei tanti test?

LK: “Era uno dei tanti test. Eravamo ingegneri che avevano accettato la sfida di creare una nuova tecnologia. Volevamo semplicemente portare a termine il lavoro. Charley Kline ha effettuato un login alla macchina, io ero lì per supervisionarlo. Non avevamo nessuno a riprendere o a registrare quel momento. Certo, sapevamo che poteva essere una tecnologia interessante e innovativa, ma non abbiamo mai pensato che potesse cambiare il mondo”.

DL: Neppure un sospetto?

LK: “In realtà ebbi un’illuminazione quattro mesi prima. La scrissi, che non si dica che me la sono immaginata. In sostanza ipotizzai un network sempre attivo, sempre disponibile, accessibile ovunque e da qualunque dispositivo, nonché invisibile. In realtà non riuscì assolutamente a immaginare i social network. Non me ne sono reso conto fino all’arrivo della posta elettronica. Oltre a ciò la parte sull’invisibilità non è ancora avvenuta, ma tutto il resto è accaduto”.

(…)

DL: Tutti ricordano la frase storica di Neil Armstrong sulla Luna che pronunciò quello stesso anno. Diciamo che il primo messaggio della rete non è stato altrettanto epico, no?

LK: “Sì, be’, me l’hanno fatto notare in tanti. Ha ricordato Armstrong, ma pensiamo pure alle prime parole pronunciate da Samuel Morse per il primo messaggio telegrafico: Quali cose ha creato Dio (What hath God wrought?). O ancora, Alexander Graham Bell: Vieni qui. Voglio vederti. Frasi potenti, bibliche. Era gente intelligente, che aveva capito il potere mediatico. Noi no”.

DL: Eravate piuttosto concentrati sull’obiettivo…

LK: “Ma sì, niente videocamera o registratore. L’obiettivo era di poter disporre di un laboratorio informatico collocato per esempio a Venezia da qui, all’Ucla di Los Angeles, senza spostarci. Avere la possibilità di collegare in modo remoto le macchine era lo scopo del network. Quindi dovevamo fare il login da un calcolatore a un altro. Eravamo pronti. Ma come verificare l’esperimento? Charley Kline all’Ucla e Bill Duvall allo Stanford Research Institute erano in contatto telefonico. Pensi all’ironia: usavamo il telefono per testare una tecnologia che in teoria l’avrebbe ucciso. Comunque, si digita la l. Trasmessa. Si digita la o. Trasmessa. Si digita la gil computer va in crash. Quindi il primo messaggio di internet è stato lo. Col senno di poi ho riconosciuto essere l’inizio di Lo and behold (espressione di sorpresa in inglese, ndr). Stringato, potente e profetico, non potevamo chiedere di meglio”.

DL: Ma all’epoca non c’erano alternative per far comunicare i computer tra loro in modo simile?

LK: “C’erano alcune reti di computer, per esempio il Sage, Semi-Automatic Ground Environment. Avevano connesso macchine identiche per raccogliere dati radar, utile in caso di interferenza sovietica al confine americano settentrionale. Era però un network molto specializzato e tra computer uguali. Non c’era il concetto della commutazione di pacchetto. L’idea si basava sulla mia tesi di dottorato intitolata Flusso di informazioni in grandi reti di comunicazione. Mi interessavano i grandi network”.

DL: Come mai?

LK: “Perché sapevo che una volta estesa la rete, sarebbero emerse alcune proprietà che non si vedevano nei network piccoli e specializzati. Non c’era alcuna nozione su come ingrandirne le dimensioni e gestirne la vulnerabilità. Per aumentare la scalabilità non puoi avere l’intero controllo del sistema in un unico nodo. è troppo vulnerabile, troppo traffico in entrata e uscita. Bisogna distribuire il controllo su tutti i nodi, una rete distribuita. Per il solo fatto di aumentare le dimensioni di un network le prestazioni migliorano notevolmente. È una cosa matematica. Il principio chiave è che più grande è meglio”.

DL: È stato il progetto Arpanet a dare concretezza al suo lavoro. Un progetto però con finalità militari… questo non le dava da pensare?

LK: “Attenzione, il fine non era militare. Arpa è stata creata come conseguenza dello Sputnik. In quel momento l’America sentiva di aver perso la leadership in campo scientifico e tecnologico. Per cui Arpa serviva a rinforzare la ricerca nazionale. Il progetto è stato creato all’interno del Dipartimento della difesa perché era più facile ottenere i fondi. Io ero principal investigator e mai nessuno dall’alto mi ha mai imposto cosa dovessi o non dovessi fare. Poi sicuramente agli altissimi vertici si sono resi conto dei vantaggi potenziali anche per fini militari. Ma mai al livello di noi ingegneri. È importante puntualizzarlo per sfatare la leggenda urbana che la rete sia stata creata per proteggere gli Stati Uniti da un attacco nucleare”.

DL: Ah, solo una leggenda urbana?

LK: “In realtà c’è qualcosa di vero. C’era un altro progetto di ricerca che non c’entrava nulla con quello che facevamo noi all’Mit o all’Ucla. Alla Rand corporation un signore che si chiamava Paul Barren stava elaborando un network dedicato specificamente alla protezione in caso di attacco nucleare. Penso che il mito arrivi da lì”.

DL: Cos’ha pensato dello sviluppo del world wide web da parte di Tim Berners-Lee?

LK: “Wow! Da quel momento tutti hanno potuto usufruire di internet. Era finalmente disponibile al mondo dei consumatori. Tim Berners-Lee ha realizzato ciò che mancava: una buona interfaccia grafica per gli utenti. È stato molto importante. Vorrei ricordare però altri passaggi fondamentali. Nei primi anni Ottanta la National Science Foundation ha voluto connettere i loro supercomputer nel mondo usando Arpanet. Introducendo la linea ad alta velocità hanno chiamato la rete Nsfnet, il National Science Foundation Network. A quel punto la potevano usare non solo gli informatici, ma tutta la comunità scientifica, che era legata anche alle aziende. Quindi hanno iniziato a scambiarsi email, un’applicazione che ha sedotto anche le persone al di fuori del mondo della ricerca. (…)

Sul tema della privacy l’intervista si intrattiene lungamente e quindi riportiamo solo la conclusione.

(…) LK: “Innanzitutto non mi fido di Zuckerberg e delle sue motivazioni. Non sono altruistiche ma orientate all’avidità del profitto. Bisogna dire però che la difficoltà dei problemi che deve affrontare è grande. Vedi l’hate speech (incitamento all’odio, n.d.r.), che implica il tema della libertà di parola. E poi non c’è solo il mondo occidentale ma anche la Russia o la Cina, per esempio. Oltre agli abusi sulla privacy, c’è anche rischio di un internet segmentato a specifici paesi. Le cose potrebbero degenerare prima di migliorare e questa mentalità riflette il nazionalismo e il populismo dilagante nel mondo. C’è quindi sempre un lato buono e cattivo nella tecnologia, solo che ci vorrebbe più sanità mentale tra i leader. E oggi scarseggia un po’”.

franco

direttore@vicini.to.it

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