Perché impossibile? E’ la domanda a cui si cercava di dare risposta nell’incontro presso la Biblioteca Civica Villa Amoretti il 22 scorso con Benedetta Tobagi, storica, autrice del saggio di cui al titolo.
Domanda e, implicitamente, risposta contenute già nella prefazione che l’autrice viene richiesta di leggere:
“La folla freme quando il giudice scandisce la frase fatale.”
«Per piazza Fontana ergastolo a Freda, Ventura e Giannettini», è il titolo composto in fretta nella tipografia milanese del «Corriere della Sera». La Corte d’Assise ha condannato due terroristi neri e un loro complice, collaboratore dell’intelligence militare. Ci sono voluti dieci anni, ma giustizia è fatta.
Durerà poco.
La dissoluzione del giudizio comincia in Appello e invade il processo come una cancrena, rapida e inesorabile, fino alla conferma delle assoluzioni generalizzate del 1987. «Le nebbie del dubbio avvolgeranno per sempre tutti i principali imputati: sappiamo solo di non sapere», commentava, fatalista, il «Corriere».
Invece no.
Altri processi, in seguito, scandagliano a profondità sempre maggiori i retroscena della strage, il magma dell’eversione nera coperta, aiutata – istigata? – da uomini delle forze di sicurezza dello Stato (quale sicurezza? quale Stato?) Fino al 3 maggio del 2005, all’ennesima pronuncia della Cassazione, l’ultima. Tutti assolti, di nuovo. Ma rispuntano due dei nomi che echeggiarono quella sera del 1979 nell’aula fredda di Catanzaro: Freda e Ventura.
Già assolti in via definitiva, quindi – ne bis in idem – non piú processabili. Eppure, alla luce di nuovi elementi di prova, sono dichiarati responsabili – almeno davanti al tribunale della storia. Parole pesanti, atipiche. Molti faticano a comprendere: se sono stati assolti, come può la Suprema Corte spendere parole su di loro? Che fine fa il garantismo? Come è possibile?
La nebbia cala di nuovo, ma possiamo ritrovare la strada, dipanando un filo attraverso il labirinto dei processi di piazza Fontana, camminando a raso dei muri alti e spessi che limitano di fatto la giurisdizione, laddove sono pezzi di Stato a finire sotto processo. Per analizzare la sostanza di cui è fatta l’impunità. Per comprendere il significato profondo – e la correttezza ineccepibile – di un paradosso: una giustizia incompiuta che tuttavia iscrive nella storia i nomi dei responsabili.”
Perché un processo impossibile? Sembrava, quello, un momento di presa di coscienza echiarezza: ma non viene fatta giustizia.
Perché la giustizia, anche quando funziona, è condizionata dalle persone, dal proprio tempo, da elementi materiali. Questa, in sintesi, la risposta.
Le stragi avevano l’obiettivo di perturbare lo scenario politico e sociale italiano. I terroristi di estrema destra c’erano, erano organizzati tra loro. “Ordine nuovo” si ispirava alla Repubblica di Salò, e con forte connotazioni neonaziste. Aspiravano ad una svolta autoritaria.
Tuttavia su queste frange convergono pesanti interessi che finiscono per coprire la strage. Preceduta da una macchinazione per capitalizzare sul piano politico gli attentati, per far ricadere la colpa su coloro che incarnavano la sovversione. Di qui richiesta di leggi speciali, il tentativo di aggregare interessi economici e puntare ad un rafforzamento del quadro politico attorno al governo DC in carica.
Condizionamenti. Eravamo ai margini della guerra fredda: teorie diffuse in ambiente militare e di intelligence portavano alla convinzione di dover essere pronti a quella che si chiamava una guerra non convenzionale. Presso il Ministero degli Interni era costituito l’Ufficio Affari Riservati, con compiti di Polizia Giudiziaria peraltro sovrapponibili a quelli di altri uffici investigativi. Non c’era una legge che regolamentasse le loro competenze (una legge verrà poi adottata proprio dopo le stragi).
Agevole in questo contesto occultare prove, deviare indagini, zittire testimoni, provocando una “torsione della giustizia”.
Benedetta Tobagi delinea con una certa sottigliezza le figure chiave dei fatti e dei processi. Valpreda, vittima sacrificale, molto attivo, “bauscia” il giusto per entrare nel mirino delle Forze dell’ordine, Pinelli, guida sempre preoccupata di difendere i suoi tra convocazioni della polizia e avvocati. Il questore Guida che si accorge subito che si tratta di un evento diverso dagli attentati precedenti (Enrico Deaglio racconta che un’ora e mezza dopo l’attentato convoca i giornalisti nel suo ufficio e “Io non posso anticiparvi, ovviamente, quel che accadrà da parte nostra, da parte delle forze dell’ordine stanotte o domani. Ma dico che verranno prese misure straordinarie” dichiara). L’interrogatorio del professor Lorenzon, amico di Ventura che gli aveva confidato di essere stato fra gli organizzatori degli attentati sui treni dell’ 8 e 9 agosto 1969”
Fino al giudice d’Ambrosio. Che aveva motivato quella di Pinelli come una morte accidentale.
Una strage di Stato? Certo il Ministro dell’Interno Restivo era per la pista anarchica, ma nel governo c’erano anche voci meno colpevoliste, come Carlo Donat Cattin. Strage di alcuni pezzi dello Stato, non una strage di governo. Benedetta Tobagi sembra propendere per una forzatura, da parte di alcuni ambienti.militari, che sia sfuggita di mano.
Ancora, sugli intellettuali. C’è il noto j’accuse di Pasolini “Io so…ma non ho le prove”. Certo un intellettuale organico come lui poteva ben dire di sapere tutto quello che si poteva sapere. Ma l’intellettuale non ha il potere.
Una domanda conclusiva: cosa è mancato, cosa si sarebbe potuto fare di più.
Dati i vincoli, dice la scrittrice, no non si poteva fare di più. Il contesto internazionale, la polizia giudiziaria. E se non ci sono prove la verità, quella giudiziaria, non può emergere. Forse, fra tante persone di buona volontà, sorprende che non ci siano stati altri che si attivassero come alcuni magistrati o alcuni poliziotti non collusi.
Fatti, figure in gioco, conclusioni, nelle 448 pagine del libro.
Gianpaolo Nardi
gianpaolon@vicini.to.it
Lascia un commento