Dal 22 al 26 ottobre si è svolta a Torino la diciannovesima edizione del TOHorror Film Fest, una settimana di proiezioni e convegni sul tema del fantastico e dell’orrore. Decine di cortometraggi, lungometraggi, documentari e film d’animazione hanno occupato le sale del Cinema Massimo e del Blah Blah (locale torinese situato in Via Po 21).
A chiudere la serata di proiezione dei corti d’animazione in gara, una curiosa e geniale risonorizzazione del Frankenstein di James Whale (1931) a cura degli OvO, un duo nato nel dicembre del 2000 e composto dall’istrionico batterista Bruno Dorella e dall’indemoniata chitarrista Stefania Pedretti. Il duo ha potuto da subito fare esperienza un po’ ovunque, grazie alla strumentazione particolarmente spartana; e così in diciassette anni di carriera gli OvO hanno raccolto oltre novecento concerti e un numero imprecisabile di uscite discografiche tra album, collaborazioni, singoli e pezzi da compilation. I loro live leggendari li hanno portati ovunque in Europa, Nord America, Messico, Medio Oriente e Sud Est Asiatico: una proposta originale e vincente, che li ha resi in breve tempo una delle band più attive del panorama noise rock (dissonanze e distorsioni rumoristiche che alterano la percezione sonora) mondiale. Sempre alla ricerca di contaminazioni sonore, il duo aveva già risonorizzato il Nosferatu di Wilhelm Friedrich Murnau e realizzato dal vivo le musiche per lo spettacolo teatrale Aeneis #5 Di quali pene e torture di Lenz Rifrazioni.
Il film non può che essere tratto dall’omonimo romanzo di Mary Shelley, ma sembra più ispirato a due suoi adattamenti teatrali: Presumption; or, the Fate of Frankenstein di Richard Brinsley Peake (1823) e Frankenstein: an Adventure in the Macabre di Peggy Webling (1927). Capolavoro dell’espressionismo tedesco, Frankenstein fu da subito un grande successo (maggiore incasso per quell’anno) e riuscì ad inaugurare una mitologia e uno stile che influenzarono tutte le successive pellicole dell’orrore (ad esempio dando genesi allo stereotipo dello scienziato pazzo e del suo assistente gobbo).
Nella sonorizzazione degli OvO ad ogni cambio sequenza corrisponde un perfetto cambio di ambientazione sonora: le scene introduttive si aprono spesso su sezioni swingate in cui Dorella improvvisa sul ride con delle spazzole; quando si azionano i macchinari, quando l’uomo sfida la scienza il suono è pienamente industriale (uno stile trasgressivo e sperimentale di musica elettronica, nato nel tentativo di riformare la canzone pop); quando il mostro compare per la prima volta, la sua presenza viene annunciata da un trillo prodotto con battenti feltrati sul crash; quando il mostro prende vita si piomba improvvisamente nel noise rock estremo, con la sezione vocale distorta satura di vocalizzi esoterici sopra un delirio ritmico; quando il mostro si sveglia regnano vertiginose psichedelie anni ’70; nelle scene di lotta scoppiano feroci deliri sonori senza soluzione di continuità; una sorta di arioso lugubre e demoniaco accompagna la folla nella ricerca del mostro per i boschi; un infuocato ultimo sfogo, iroso e torbido, impreziosisce il concitato finale del film.
Ma risonorizzare in live un classico espressionista è una vera impresa, soprattutto se si tratta di un cult a tutti gli effetti: nella performance degli OvO sembra esserci qualcosa di ampiamente preparato e ragionato, che a volte soffoca l’efficacia della realizzazione sonora. Il tema del doppelgänger è appena accennato e manca una vera e propria caratterizzazione sonora dei personaggi. Quando il duo si spinge negli abissi della follia, sembra spesso mancare quella componente puramente espressionista che le immagini suggerirebbero a così gran voce. I momenti di dialogo tra borghesi sono trattati con relativo disprezzo, ricercato nelle cupe sonorità con cui i facoltosi vengono sempre annunciati. L’ossessiva insistenza nella ricerca di sonorità prog (l’evoluzione del rock psichedelico britannico anni ’60) risulta a volte un po’ dozzinale, quasi come per i Rammstein più commerciali. Anche nei momenti di sincera tranquillità (la festa di paese, ad esempio) s’instaura una specie di caccia all’uomo che continua a puntare sul fattore psicologico, dimenticando che l’occhio sta vedendo altro. Si poteva anche qualificare polifonicamente meglio la folla, che non parla mai all’unisono se non tramite le estrinsecazioni feroci di un qualche demone lontano: però non basta per dare l’idea di collettività manzoniana (anche perché quello era uno sprezzo un po’ aristocratico).
Il suono però è quasi sempre una sorpresa, grazie a geniali e costanti colpi di frusta ritmici (l’aggiunta di percussioni ausiliarie) o melodici (l’insistenza sul registro grave molto riverberato della chitarra). Il duo supplisce all’assenza di dialoghi con delle litanie esoteriche molto efficaci, anche per via degli effetti sonori estremamente curati. La pedaliera di Pedretti è sterminata e aiuta a tenere lunghi ostinati con precisione, facilitando il lavoro del batterista, che così può esprimersi senza limiti: è un grande punto di forza e potrebbe essere più esplorato nei tentativi avanguardistici di oggi. Gli OvO vogliono allontanarsi da un centro tonale chiaro e ben definito, ma la forza centripeta a volte vince e allora insistono in una sorta di minimalismo degenerato (che tra l’altro è una loro costante).
Una donna chitarrista, grintosa ed esplosiva: all’estero è norma… e in Italia come va? Bene, benissimo e non serve neanche partire da Carmen Consoli o da Cristina Donà, possiamo pure parlare soltanto del 2019: Verano, Any Other, Birthh, Her Skin, Eugenia Post Meridiem, HÅN, Giungla, Thony/Malihini, Mèsa, Maria Antonietta, Joan Thiele, Giorgieness, Comaneci, Hit-Kunle sono solo alcuni dei nomi di progetti o band in cui suonano chitarriste underground, per non porsi limiti di genere musicale e guardare oltre lo steccato eretto negli anni passati.
Matteo Gentile
matteog@vicini.to.it
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