Più che mai attuale il libro di Susan Abulhawa. La storia della Palestina , intrecciata alle vicende di una famiglia, che diventa simbolo delle famiglie palestinesi , si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, dal 1940 al 2002, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno Stato e la fine di un altro. La tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita in un campo profughi, in attesa di una svolta.
L’autrice non cerca colpevoli tra gli israeliani che anzi descrive con pietà , ma racconta la storia di tante vittime.
Ogni mattina a Jenin è una passeggiata nella storia attraverso gli occhi di tre generazioni, prima, durante e dopo la fondazione dello Stato di Israele. Descrive con cura gli eventi catastrofici che hanno segnato la vita degli occupati .
Sono tanti i sentimenti che pervadono il racconto di Abulhawa: l’amore per i tempi felici delle vecchie generazioni, la paura di perdere i propri cari, la rabbia dell’impotenza e della fragilità, l’abbandono delle terre e delle case, la nostalgia di ricordi vissuti ma anche di quelli che non si vivranno mai, il nazionalismo che prevale in tutte le generazioni e la fatica interiore ed esteriore di tutti quelli che portano il peso di essere palestinesi.
La storia si snoda attraverso i racconti di tre donne, Dalia, Amal e Sara , tre generazioni differenti, tre diversi punti di vista. Dalia ha vissuto la sua terra durante gli anni migliori e ha visto il mutamento precoce a causa dell’invasione. Aveva tutto Dalia poi, all’improvviso, si è ritrovata spoglia e sola. Amal cresce in una famiglia normale con una Jenin ancora in piedi, sogna di laurearsi e trovare l’amore, mentre sua madre, Dalia, è diventata un cadavere che respira perché qualcuno ha rubato il suo amato figlio Isma’il. Amal vede Jenin esplodere e perdere tutto. Sara nasce in America ma si sente straniera, in lei c’è una nostalgia di tempi mai vissuti, ci sono le sensazioni e i racconti di sua madre Amal di un posto chiamato Palestina ma che tutti chiamano Israele. Lei percorre le strade di Jenin e dei posti limitrofi che sua mamma le ha cantato per tutta la vita e respira risentimento e sofferenza che caratterizzano quei luoghi subendo, sulla sua pelle, le tragedie di milioni di sfollati.
L’attenzione principale del romanzo è l’io ebreo e l’io arabo/musulmano che prende forma sin dall’inizio della narrazione. L’ossimoro Palestina/Israele, musulmano/ebreo arriva all’apice della sua essenza nel dualismo Isma’il e David che rappresentano due facce della stessa medaglia, due estremità contrapposte. Abulhawa crea una storia incredibile, sceglie un modo particolare di raccontare israeliani e palestinesi e lo fa lasciando il lettore senza fiato e con uno stupore che non ha eguali. Dalia perde Isma’il in mezzo alla folla, un soldato israeliano trova il bambino , un figlio desiderato e mai arrivato, lo porta con sé e lo chiama David. Chi è Isma’il? Un bambino di pochi mesi nato con una sola colpa: essere palestinese nel periodo della colonizzazione. Chi è David? È quel bambino palestinese che sua mamma ha perso tra la folla e si è trasformato in un israeliano, in un ebreo, in un soldato riparatore che tortura palestinesi pensando che siano loro quelli nel torto. Dalia non saprà mai che in realtà suo figlio è vivo ma Amal, sua figlia, conoscerà David e ritroverà Isma’il allo stesso tempo, i due opposti si congiungeranno fondendosi in un’unica anima. Questo probabilmente è il simbolismo di una speranza di unione e di pace, che possa superare le divisioni, perché in fondo si tratta di due facce della stessa medaglia.
Ogni mattina a Jenin è un grido di una madre, di una figlia, di una moglie, è un grido di disperazione e di speranza per cercare di arrivare più vicino possibile alle orecchie di tutto il mondo. E-‘ un libro potente e crudo per il coraggio con cui Susan Abulhawa sceglie i termini, le frasi e i sillogismi da usare . Leggendo questo libro si comprende appieno dove sono radicate le cause degli eventi efferati che hanno portato alla guerra attuale, che sembra di difficile soluzione.
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei sei giorni e ha vissuto i suoi primi anni in un orfanatrofio di Gerusalemme . Adolescente si è trasferita negli Stati Uniti dove si è laureata in Scienze biomediche . Ha scritto numerosi saggi sulla Palestina.
Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa è edito Feltrinelli
Maria Cristina Bozzo
cristinab@vicini.to.it
Lascia un commento