Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

L’Italia secondo Fellini

Goffredo Fofi accomuna Fellini e Kubrick a Metastasio: “è del poeta il fin la meraviglia”. Entrambi i registi seppero meravigliare, sollecitare nel pubblico emozioni insolite, collegamenti, idee, immagini nuove. L’eclettico Fellini fu capace di cogliere stimoli dalle avanguardie artistiche così come dalla cultura popolare, attingendo a mambassa al circo, alla sceneggiata napoletana, all’avanspettacolo.

 

Di questo e molto altro si è parlato alla presentazione di L’Italia secondo Fellini , Edizioni e/o, il primo appuntamento del 2020, organizzato dall’ AIACE, tra le molteplici iniziative destinate a celebrare, nel corso dell’anno, il centenario della nascita del regista riminese. Ciascuno degli intervenuti – lo storico del cinema Goffredo Fofi, Emiliano Morreale, critico e docente, Stefano Francia di Celle, neodirettore del Torino Film Festival, coordinati da Giulia Carluccio, presidente di Aiace Torino – ha fatto emergere il “suo” Fellini. Dagli esordi come sceneggiatore, cresciuto sulle colonne del giornale umoristico Marco Aurelio e con le gag per i film di Macario e Aldo Fabrizi, ai primi successi, fino al disorientamento esistenziale seguito a La Dolce Vita, quando decise di andare in terapia e l’analista junghiano Bernhard insinuava che puntasse a prendere idee per i film più che a guarire. Forse non aveva tutti i torti, giacchè quel percorso generò Otto e mezzo, opera che fece dire a Calvino, all’uscita dal cinema torinese: “In letteratura queste cose ci sono già!”, anche se non tutte all’altezza di quel capolavoro da Oscar.


Goffredo Fofi ricorda che una volta un giornalista americano chiese a Cesare Pavese quale fosse il più grande narratore italiano e Pavese rispose: “De Sica”. Un cineasta può quindi raccontare un Paese meglio di uno scrittore, di un sociologo, arrivando a coglierne la vera essenza. Se Rossellini, Fellini, Pasolini e Antonioni sono stati i grandi innovatori del nostro cinema, Fellini arrivò ad essere il riconosciuto maître à penser, il nostro regista più noto all’estero e un suo nuovo film faceva sì che i migliori ingegni d’Europa si pronunciassero. Fellini “antropologo”, giustappunto, che ha rivelato gli italiani a se stessi: con Amarcord seppe raccontare l’effetto nostalgia che sortisce il passato, anche quello degli anni del fascismo, e con Prova d’orchestra suggerì una rilettura critica del ’68.
Gli ultimi suoi film, Ginger e Fred e soprattutto La voce della Luna, raccontano il disfacimento dell’Italia più recente: Villaggio e Benigni sono sperduti com’era sperduto alla fine Fellini, un uomo dolente che non facevano più lavorare, l’unica proposta ricevuta quella di realizzare un documentario sul Colosseo da parte degli americani. Infine, il legame non a tutti noto con Pasolini, che definiva Fellini “il vescovone” mentre quest’ultimo lo chiamava “il fratellino”. Anche il “vescovone” espresse una critica al potere nella ridicolaggine di figure quali professori, militari, alti prelati, fascisti in orbace, politici, che lo fecero affermare: non pensavo che l’Italia fosse così “felliniana”!

Anna Scotton
annas@vicini.to.it

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