Chi è ragazzo adesso, è nato in un periodo privo di grandi ideologie. Il mondo non è più diviso in maniera manichea e i punti di riferimento sono labili; tutto i dissolve in una sorta di liquidità come teorizzò Zygmunt Bauman all’inizio del nuovo millennio.
Questo tipo di società, secondo il sociologo polacco, si basa su un individualismo sfrenato per cui il proprio vicino diventa una persona con cui competere, non un compagno di viaggio. Questa modernità liquida si può definire come la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza.
A prescindere che si sia o meno d’accordo con quanto teorizzato da Bauman, non si può tralasciare che il senso si incertezza e instabilità sia generalmente riscontrato all’interno della nostra società.
E proprio questo sentire comune bisognerebbe tenere a mente nel cercare di comprendere la nostra generazione, la cosiddetta generazione Z, dei giovani nati tra il 1996 e il 2010 circa.
Di recente mi hanno domandato di che cosa parlino i ragazzi quando si incontrano davanti a una birra (o quando si incontravano); se pensino ancora a cambiare il mondo, se sognino in grande, quali siano le passioni che li motivano.
E’ una domanda che mi ha colpito. Ci viene detto spesso: “I ragazzi sono il futuro” ma quasi mai nessuno chiede che tipo di futuro vorremmo veramente.
Questa dovrebbe essere l’età in cui si fanno grandi progetti, in cui si sogna costantemente ad occhi aperti e certo, è così. Iniziamo a sognare fin da quando ci pongono per la prima volta la fatidica domanda “Che cosa vuoi fare da grande?”; ma è ormai spesso un sogno disturbato, di chi sa che da un momento all’altro si sveglierà e il risveglio non sarà affatto piacevole.
Come qualsiasi ragazzo prima di noi, ci troviamo spesso a parlare del nostro futuro; di quando faremo tutti il lavoro dei nostri sogni e godremo reciprocamente degli aiuti professionali degli amici. E’ bello fantasticare ma spesso queste immagini sono cariche di amarezza: “Però X non la vedremo mai, la prenderanno subito in qualche azienda straniera con la sua preparazione; e infondo anche tu non hai detto che vuoi fare la specialistica all’estero perché qui non pagano abbastanza e non ci sono posti sufficienti?”. Così terminano molti nostri discorsi sul futuro.
Quando parliamo del futuro ci chiediamo anche se vogliamo avere figli. Non per essere sicuri che un giorno l’amico non ci rubi il nome che ci piaceva tanto, ma perché ci domandiamo se mai potremo averne; se non sarebbe estremamente egoistico voler mettere al mondo un essere umano in questo pianeta distrutto; se non saremo l’ultima generazione a poter vivere decentemente sulla Terra.
Parliamo di queste cose e di come amiamo e odiamo il nostro paese.
Sia chi creda che si possa ancora fare qualcosa, sia chi dice di aver perso le speranze, sa che la situazione deve cambiare. Sentiamo sempre di più la puzza di marcio venire a galla da tutte le parti e prendiamo progressivamente coscienza che non basta metterci una toppa sopra, cercare di arginare il danno, bisogna per forza intraprendere una ristrutturazione completa.
Ci chiediamo come potremo mai crescere in un paese che non cresce con noi; se valga più la pena restare e cercare di dare un contributo nel nostro piccolo o andarcene e perseguire la felicità personale altrove. Siamo anche coscienti che in entrambi i casi sbaglieremo: se te ne andrai ti rinfacceranno di aver abbandonato il tuo paese, se resterai ti accuseranno di accontentarti.
Ma come ci si può costruire un futuro in un paese che ristagna? Come sognare in grande in un paese in cui il tasso di occupazione femminile è del 53, 1% (a livello europeo superiore solo a quello della Grecia), in cui a 70 anni dalla fondazione della “Cassa del Mezzogiorno” si parla ancora di dover sanare il divario tra Nord e Sud e in cui almeno 3,7 milioni di persone lavorano in nero?
Fin dai primi passi che muoviamo per farci strada sentiamo che il nostro passo è appesantito; ci è voluto qualche anno prima di capire perché ci sentissimo come se fossimo costantemente in ritardo pur non essendo mai stati bocciati alle superiori, pur non avendo esami indietro all’Università o avendo iniziato a lavorare subito dopo il diploma. Ci abbiamo messo un po’ per convincerci che non è colpa nostra; parlando con gli amici abbiamo capito che è un sentimento comune e che è difficile levarselo di dosso, l’unica cosa che possiamo fare è ripeterci ogni tanto che no, non è colpa nostra, che in qualche modo ce la faremo lo stesso.
Ma ora che siamo da più di un anno come congelati, questa sensazione si acuisce; soprattutto perché il mondo intorno a noi non è fermo, continua a muoversi anche se noi ci sentiamo più impantanati di prima.
Forse per questo motivo i nostri discorsi sono sempre più orientati in questo senso; o forse solo perché stiamo crescendo e vediamo avvicinarsi sempre di più il momento in cui dovremo aprire quella dannata porta che ci immetterà nel mondo del lavoro.
Sentiamo la necessità di sapere che non siamo gli unici a sentirci persi, ad avere paura che nulla cambierà, a temere di scoprire di esserci da sempre illusi di camminare su una strada ben tracciata quando in realtà non esiste che un polveroso sentiero in mezzo al nulla.
Sogniamo di potercene andare per scelta e non per necessità, sogniamo delle politiche ambientali più severe e campagne di sensibilizzazione più diffuse. Sogniamo la parità tra sessi e un ricambio generazionale nella politica. Sogniamo ancora tante cose; ma soprattutto sogniamo di essere desiderati nel nostro paese.
La verità è che essere ragazzo è difficile per tutte le generazioni, ma per la nostra lo è per questi motivi.
Chiara
chiaral@vicini.to.it
Lascia un commento