Qualunque cosa sogni d’intraprendere, cominciala. L’audacia ha del genio, del potere, della magia. (Goethe)

 

Racconti del ’68: intervista Anna

Vicini ha raccolto quatto storie personali del periodo del ’68 che raccontano quel periodo con una visione d’insieme che potete leggere nell’articolo di sintesi. Questa è l’intervista ad Anna Bravo: storica italiana ed ex docente universitaria.

Quando è iniziato il movimento del ’68 lei lavorava o studiava all’università?
Ero tornata da poco a Torino e la situazione non mi sembrava buona; avevo due cari amici che erano andati in Africa per vedere se ci fosse qualcosa di meglio che potessero fare, io stavo per partire ma poi è arrivata l’occupazione studentesca del ’67 ed ho capito che era meglio stare qua,che era importante stare qua e che era anche divertente stare qua. Ho fatto una scelta dettata anche dall’idea che a quell’epoca c’era: l’idea della rivoluzione; con gli occhi di adesso direi ingenuità, idealismo e anche ideologia.

Che cosa le ha fatto capire che il clima stava cambiando?
Sicuramente il fatto che c’era tanta gente unita con lo stesso obiettivo in cui tutti si riconoscevano. Poi soprattutto la fine della solitudine. Ti sentivi subito vicino e amico, con idee analoghe e un modo simile di vedere le cose.

Quando è iniziato il movimento del ’68 lei ha subito preso parte attivamente, per esempio con il movimento femminista?
Ho iniziato subito, partecipavo a tutte le assemblee lavoratori/studenti ma non al movimento femminista che a dir la verità era più forte in America. In Italia c’erano gruppetti più chiusi che facevano autocoscienza e leggevano insieme. Io avevo letto alcune cose americane che arrivavano qua perché i rapporti erano molto fitti, da poche persone a poche persone; arrivavano per esempio lettere dei disertori americani del Vietnam, c’era un canale con un pezzo di mondo.

Ed era questo il modo in cui lei era informata su ciò che avveniva nel resto del mondo? Quale ruolo avevano allora i mass-media?
Credo che allora leggessimo poco i giornali e ascoltassimo poco la radio, certo anche i mass-media ne parlavano ma eravamo così preda di questa felicità pubblica che non ci importava ciò che dicevano di noi. Ma soprattutto una cosa che mi ha colpito e tutt’ora credo sia la più importante del ’68: fino ad allora il discorso pubblico era riservato ad intellettuali, docenti, col ’68 ci fu un’apertura del discorso pubblico anche alla gente “comune”. Un’altra cosa molto importante era che la politica doveva partire dalla vita quotidiana, da quello che sei, con slogan come “ prima di cambiare il mondo cambia te stesso”.

Crede che ci fosse anche chi prendeva parte al movimento solo per seguire gli altri o approfittarne per creare scompiglio senza rendersi bene conto di quello che succedesse?
Può essere, ma una volta che ci entravi dentro cambiavi: vedere persone che non hanno mai preso parte a dibattiti pubblici alzarsi in assemblea e parlare dei propri problemi era un simbolo di democrazia vera che non ti poteva lasciare indifferente. I più facinorosi forse erano alcuni studenti. Ci fu poi una degenerazione della violenza: a Torino no, ma in altre città d’Italia la polizia ci andava giù pesante.

Si sente di poter parlare anche di aspetti negativi del ’68?
Si. Il più tragico secondo me è stato l’invasione sovietica in Cecoslovacchia. Non abbiamo compreso la situazione perché tra i miti che avevamo uno molto forte era quello del comunismo; ma i paesi che nel ’68 si sono ribellati alla morsa sovietica vedevano il comunismo vero: quello fatto di gulag, polizia ovunque, processi, esecuzioni. Ciò che mi rimprovero è di non aver capito che persone che manifestano in piazza, tra l’altro in modo non violento, non sono solo revisionisti; questo è lo sbaglio che pesa più di tutti.
Un altro aspetto negativo può essere considerato l’arrivo di alcuni gruppetti come “Lotta Continua” alla quale ho aderito anche io stando un po’ dentro e un po’ fuori e che erano per l’organizzazione, per le gerarchie, con anche un’idea di partito e un’ideologia forte che vedeva la rivoluzione come qualcosa che doveva capitare secondo certe formule. Contrapposta a questa idea di rivoluzione c’era quella proveniente dalla Germania, da un leader molto importante: Rudi Dutschke il quale pensava, come molti di noi, che bisognasse fare una “lunga marcia attraverso le istituzioni” cioè comunicare a tutte le persone che stavano all’interno delle istituzioni di prendere di petto l’insopportabilità delle loro condizioni e cominciare a fare la “rivoluzione” a partire dal posto che occupavano. Man mano che sempre più persone avessero preso coscienza, si sarebbe creato un movimento che avrebbe sovvertito un ordine disgustoso. Purtroppo questa posizione era minoritaria.

Come era visto dal governo questo movimento?
Quasi tutti i partiti lo vedevano male, anche il partito comunista. Chi lo vedeva con un po’ di interesse era l’ala liberal-democratica. Non erano ben considerati anche per l’influenza dei mass-media e l’uso della violenza che devo dire però, la maggior parte delle volte era ritualizzata; per esempio quando ci si scontrava con i fascisti, ci si sarebbe potuti ammazzare sia da una parte che dall’altra ma in realtà era solo esibizione di forza virile.

Quando hanno iniziato le donne a prendere coscienza?
Tra ’71 e ’72 hanno iniziato a parlare tra di loro, poi le manifestazioni vere e proprie sono arrivate nel ’74/’75, ma c’era già in ballo la legge per l’aborto e quella sul divorzio era già passata.
C’è da dire una cosa però: in un certo senso noi ragazze eravamo anche tanto ignoranti perché il femminismo era già nato a fine ‘700-inizi ‘800 e noi non ne sapevamo nulla; non eravamo neanche a conoscenza della presenza ad inizio ‘900 di un movimento femminista robusto che chiedeva il voto e grazie al quale noi potevamo andare a votare. Sembra che la storia delle donne non riesca a mettere a frutto le sue antenate.

Che cosa crede abbia fatto prendere coscienza alle donne italiane dei propri diritti?
Penso che questa coscienza sia arrivata con l’esperienza, con il “partire da sé” e l’antiautoritarismo del ’68. Poi il femminismo era troppo diffuso in tutto il mondo ormai, negli Stati Uniti c’era già da 10 anni.

Che differenza crede ci sia tra il femminismo di allora e quello di adesso (sempre se si possa definire tale)?
Allora eravamo forti, unite e decise a non essere più vittime. Volevamo essere trattate come soggetti e non più vittime che non sono in grado di difendersi. Adesso invece sta tornando la figura della vittima, fin troppo, e fa si che a volte si accusino persone senza prove, senza un processo che spetta di diritto a tutti.

In veste di ex insegnante universitaria, quali cambiamenti ha riscontrato tra l’insegnamento impartito prima del ’68 e quello che dava lei ai suoi alunni?
Io ho sempre cercato di dare ai miei alunni tutta la conoscenza che avevo; allora era diverso: la scuola dava contenuti vecchi in modo autoritario e alcuni esami erano dati in un clima di paura; non capivano che l’autorità te la devi guadagnare, se sei sulla cattedra non sei autoritario a prescindere. Poi si prendeva per vero tutto quello che i professori dicevano, dal ’68 si e capito che non è così e questa credo sia un’acquisizione importante che ti resta.

Quanto si può dire essere durato il movimento del ’68?
Il ’68 dell’antiautoritarismo di cui abbiamo parlato credo che a maggio/giugno ’68 fosse già finito; dal punto di vista della mobilitazione sociale si può parlare di anni ’68 che continuano negli anni ’70 con il movimento operaio e femminista.

Chiara Lionello

chiaral@vicini.to.it

 

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